“Misericordia” di Emma Dante è un film di cui purtroppo si è parlato per il motivo sbagliato. Noto è infatti il riferimento ad una distribuzione non adeguata (la stessa che aveva inizialmente colpito anche “La Chimera” di Alice Rohrwacher) che purtroppo ha privato il grande pubblico di un’opera splendida. Perché “Misericordia” questo è: un’opera splendida.
L’apertura del film è uno schizzo di crudezza fiondato su una tela: la furia della montagna che sovrasta quella di un uomo miserabile, la morte, il pianto disperato di un bambino, il precipizio, la forza dell’acqua, un tuffo, lo schianto che precede lo sprofondare, lo sprofondare che precede il futuro.
Il futuro è Arturo.
Emma Dante ci fa incontrare quest’uomo, interpretato da Simone Zambelli, mentre corre nudo insieme ad un gruppo di bambine e bambini che sembra acclamarlo e allo stesso tempo guidarlo. L’immagine che ritorna allo spettatore è quella di un poligono sfaccettato di amore, amicizia e tenerezza. La nudità di Arturo in mezzo a un gruppo di bambini non emerge mai come un atto violento, la connessione con lo spettatore è immediata, come sostanzialmente immediato è il riconoscimento di Arturo come bambino tra i bambini.
Dal micromondo del gioco, il film procede verso quello che, per quanto ristretto, si configura come il macromondo del protagonista: un mondo decadente e di una povertà estrema nel quale non viene celata in alcun modo la brutalità di cui l’uomo sa essere capace, un mondo nel quale la disabilità di Arturo è accolta e dove insieme alla muffa e al marciume emerge la Cura.
Arturo vive in delle case diroccate lungo una indefinita costa siciliana ed è accudito da delle prostitute, in particolare da Betta (interpretata da Simona Malato, già Maria ne “Le sorelle Macaluso”) e Nuccia (Tiziana Cuticchio) che si prendono cura di lui da quando era solo un “picciriddu”. A loro si aggiungerà la più giovane Anna (Milena Catalano) la quale costruirà sin da subito un legame forte e dolce con Arturo, in un rapporto in costante evoluzione.
Le giornate dei protagonisti passano tra i crudi episodi di prostituzione delle tre donne, il via vai di clienti che ne consegue e le scorribande e le crisi di Arturo. L’uomo soffre infatti anche di una complessa forma di sonnanbulismo che lo porta a vagare e allo stesso tempo ad avere violenti spasmi notturni. In questi frangenti è fenomenale la performance corporea di Zambelli, il quale provenendo dal mondo della danza riesce perfettamente a far parlare con le fibre muscolari e le sole espressioni facciali un personaggio privato della parola.
Il contorno è quello di una vita quotidiana dove tenere insieme i pezzi con fatica, la furia del mare che allaga le case, in un continuo richiamo ad una natura spaventosa e onnipotente, pasti frugali messi in tavola con difficoltà, momenti giocosi tra i rifiuti delle discariche abusive e strati di antichità andati in pezzi, con la vita della piccola comunità che scorre sullo schermo allargando di volta in volta i limiti del conosciuto.
Altro personaggio chiave, che si rivela essere la figura di potere del luogo, è un uomo dai tratti mitologici detto Polifemo (interpretato da Fabrizio Ferracane).
Polifemo in quanto “mito” è incarnazione totale del male, è il terrore di Arturo al quale nonostante tutto è legato indissolubilmente, ed è il protettore non solo delle tre protagoniste, ma di tutte le altre prostitute che affollano le baracche sulla costa e che Emma Dante ci presenta attraverso un momento fotografico di luminosa bellezza.
Proprio Polifemo sarà il protagonista di un momento in grado di sdoppiare letteralmente il sentire dello spettatore in una scena che lascia le porte aperte all’orrore più totale o all’emergere dell’ultimo tratto di umanità di un personaggio che ne è totalmente svuotato.
Una festa notturna vede Polifemo prendere per le mani una delle bambine del luogo, lasciandosi andare in un ballo tiepido ma allo stesso tempo così distante da spalancare l’abisso della domanda: cosa è quella bambina?
In quella danza Polifemo riscopre il contatto con l’essere umano o vede davanti a sé la propria merce futura, già un corpo dal quale estrarre valore prima possibile mettendolo alla mercé degli uomini?
In questo Emma Dante è maestra del non-detto, lasciando allo spettatore la scelta di dove posizionare l’asticella dell’orrore.
Se Polifemo è la figura che richiama il “mito”, Anna è la figura che richiama il “fantastico” in particolare all’interno di un passaggio brutale in cui ci viene però presentata in veste di Fata Turchina.
Proprio questa presentazione risulta fondamentale anche per assegnare un nuovo significato al personaggio di Arturo del quale inizia a spiccare l’aspetto evolutivo e di crescita, da un lato trainato proprio dal suo rapporto con Anna e dall’altro dal piano segreto che Nuccia, nonostante una Betta riluttante, ha in serbo per lui.
Il film ha l’abilità di riuscire a dare momenti di primo piano a tutto quello che lo è “sfondo” e lo fa con la magia di vere e proprie fotografie che non possono che rimanere fissate nell’occhio di chi guarda, in “Misericordia” niente risulta essere secondario e tutto sembra orientato alla creazione di una pura armonia filmica che vede la sua conclusione nella ricerca di una risposta su dove si trovi il confine tra l’amore e ciò che è giusto, lasciando lo spettatore sull’orlo di un tuffo, lì come tutto è cominciato.
Il cinema italiano non è assolutamente morto, troppo spesso purtroppo ci viene solo nascosto. Datecene di più.