Nel decennale dell’evento simbolico del crollo delle Torri Gemelle di New York – colpite da due aerei di linea, dirottati e trasformati in arma kamikaze da alcuni fondamentalisti islamici, mentre un terzo aereo si andava a schiantare sul Pentagono e un quarto mancava l’obiettivo, precipitando in un campo, in seguito alla ribellione dei dirottati – sul piano del racconto, non c’è molto altro da aggiungere a quanto si è già, celebrativamente, letto, visto e ascoltato negli ultimi giorni.
Per dovere di cronaca, in verità, andrebbe registrato anche il dato di fatto che al racconto veicolato dai media mainstream, da diversi anni, fa da contraltare una narrazione differente (e assai più problematica) della vicenda degli attacchi aerei dei dirottatori kamikaze. Una narrazione alternativa nata e sviluppatasi principalmente in Rete e, sovente, etichettata e liquidata – forse un po’ troppo sbrigativamente – come cospirazionista, nella sua interezza. Sul punto, parafrasando Roberto Quaglia, autore de “Il Mito dell’11 Settembre e l’Opzione dottor Stranamore”, ancora una volta, va posta solo la domanda diabolica: «Internet ha davvero smascherato la madre di tutti i complotti, oppure ha generato il padre di tutti i miti?», senza pretendere, in alcun modo, di dare una risposta definitiva, che – in un senso o nell’altro – saprebbe tanto di Atto di Fede.
Del resto, anche stando ai fatti come sono noti ai più, è del tutto legittimo avanzare qualche dubbio sulla correttezza dell’operato dell’amministrazione USA, sotto la presidenza di Bush jr, semplicemente per il fatto che essa ha, indiscutibilmente, scelto di usare la tragedia di dieci anni fa a fini politici, incidendo peraltro (e non poco) sui destini di mezzo mondo.
Ed è proprio questo, l’aspetto che, oggi, andrebbe maggiormente approfondito: gli effetti politici e sociali dell’evento undici settembre, in quella sorta di comunità sovranazionale che si è sentita, improvvisamente, proiettata in tempo di guerra, senza che, in realtà, vi fosse stata un’azione di guerra in senso proprio.
Non è politica, insomma, la scelta di considerare “atto di guerra” un quadruplice attentato terroristico, per quanto senz’altro di enorme portata? Non dovrebbe essere lampante, anche solo analizzando semanticamente l’espressione “War on Terror”, la valenza tutta politica delle scelte operate dieci anni fa? Che senso ha dichiarare letteralmente guerra al “terrore” (o al “terrorismo”)? Come si è giunti a credere che fosse la cosa più naturale di questo mondo reagire occupando militarmente l’Afghanistan, soltanto perché si riteneva che lì si trovassero i vertici dell’organizzazione terroristica che ha rivendicato gli attentati? Come si può giustamente denunciare l’orrore delle circa tremila vittime innocenti dell’undici settembre e, contestualmente, assecondare la scelta politica di una risposta militare che avrebbe prodotto (e ha prodotto) una crescita esponenziale delle morti e delle devastazioni? Interrogativi di semplice buon senso, che si potevano porre già dieci anni fa.
Domande che, nella sostanza, ogni persona ragionevole dovrebbe porsi oggi, visto che, facendosi beffe dei contingenti militari NATO ancora operativi in Afghanistan, a quanto pare, Osama Bin Laden, il capo supremo della famigerata Al-Qaida, in realtà, si nascondeva in Pakistan, là dove – senza che vi fosse bisogno di una guerra decennale – sarebbe stato recentemente ammazzato (pare, nel tentativo di catturarlo), anche se nessun operatore dell’informazione ha mai visto il corpo, sepolto in mare, non si è ben capito per quale ragione.
Il tutto mentre Bush figlio, sempre nell’ambito della sua epica “War on Terror”, nel 2003, decideva di portare a termine il lavoro lasciato a metà dal padre una dozzina d’anni prima, occupando militarmente l’Iraq, fino alla deposizione e all’esecuzione per impiccagione del suo autocrate Saddam Hussein. Va sottolineato che costui venne formalmente accusato di possedere (e di nascondere alla comunità internazionale) delle ormai leggendarie “armi di distruzione di massa”, sulla base di un’informativa dei servizi in seguito riconosciuta come fasulla. Qui, dunque, formalmente, un casus belli di una qualche consistenza c’era. Non era vero, ma almeno c’era.
Ora, è lecito presumere che in tutto questo, un ruolo fondamentale lo abbia svolto la vera e propria (almeno in Italia) militarizzazione dei grandi media, che, soprattutto nell’immediato, hanno sposato in maniera a dir poco acritica la linea bellicista. Ma poiché il caso italiano – ossia la sostanziale coincidenza della leadership della destra maggioritaria e bellicosa con la proprietà delle tre principali reti televisive e, dal 2002, col controllo politico delle altre tre, quelle (formalmente) pubbliche – resta unico nel panorama internazionale, c’è qualcosa che va al di là del bombardamento mediatico, nella vasta diffusione di questo modello di pensiero tendenzialmente fascistoide. Ci sono cioè delle precondizioni politiche che, verosimilmente, devono essere in grado di spiegare questa sorta di acquiescenza generalizzata a scelte illiberali e pretestuosamente guerrafondaie, accolte con entusiasmo dalle destre di mezzo mondo e, per lo più, assecondate dalle sinistre di palazzo, con la sola notevole eccezione di un eterogeneo fronte pacifista popolare, rimasto però di fatto senza una autentica e significativa rappresentanza nei centri decisionali del potere.
Nella consapevolezza di quanto sia arduo provare a svolgere un discorso di tale complessità e vastità, nell’economia di poche righe, di seguito, si cercherà pertanto di abbozzare una sommaria ricostruzione, individuando in particolare alcuni riferimenti simbolici, che possano essere d’aiuto nel tentativo di provare a capire meglio quello che è successo politicamente alla cosiddetta civiltà occidentale a cavallo tra il secondo e il terzo millennio dell’era cristiana.
Anticipando in parte le conclusioni, si tratta di comprendere e di verificare – assumendo chiaramente come osservatorio privilegiato la situazione italiana (ed europea), cercando però di non desumerne generalizzazioni arbitrarie – fino a che punto su tutto ciò abbia (o non abbia) potuto influire la crisi epocale delle sinistre post 1989. Di quelle sinistre che hanno malaccortamente interpretato il crollo del muro di Berlino, prima, e del blocco sovietico, subito dopo, come la sconfitta di un’Idea, lasciando così un intero campo libero al prevalere incontrastato dell’individuo sulla comunità, del nazionalismo sull’internazionalismo, del capitale sul lavoro, delle oligarchie sulla democrazia e della conservazione sul progresso.
Dunque, probabilmente, i prodromi dell’impatto politico che l’evento simbolico del crollo delle Twin Towers ha avuto sulla civiltà occidentale si possono far risalire all’altro crollo simbolico, quello del muro di Berlino, datato appunto 1989.Quel crollo è stato propagandato, nella vulgata politica degli anni a seguire, appunto come momento topico della fine delle ideologie. E il crollo delle ideologie – o meglio la fine dell’esperienza comunista sovietica e, con essa, la fine della cosiddetta Guerra Fredda tra il blocco del capitalismo e quello del socialismo reale – veniva salutato (ingenuamente?) come un viatico sicuro verso un’era di libertà, di prosperità e di pace tra i popoli.
Peccato che, poi, le cose non siano andate affatto così.
Lo scorcio conclusivo del secondo millennio, infatti, ha addirittura riportato la guerra nel cuore dell’Europa (seppur restando circoscritta all’area balcanica). E il nuovo millennio, poi, è stato inaugurato all’insegna di un preteso scontro di civiltà tra l’Occidente libero e l’Islam (l’intero mondo islamico per i più fanatici; il solo Islam fondamentalista per i più pacati). Uno scontro da vincere, ricorrendo alla cosiddetta “dottrina Bush” della guerra preventiva per l’esportazione della democrazia, perché l’undici settembre appunto ‘dimostrava’ che un nuovo temibile nemico era alle porte e che, quindi, d’ora in avanti, tutto sarebbe stato lecito pur di non soccombere.
Come ha scritto recentemente il filosofo e studioso di psicoanalisi sloveno Slavoj Žižek, di fronte a uomini «pronti a distruggere questo mondo per amore dell’altro mondo», dunque, si paravano altri uomini «pronti a distruggere la loro democrazia in nome dell’odio per l’altro musulmano». E basta solo pensare a Guantanamo, Abu Ghraib e alla pratica degli interrogatori col cosiddetto waterboarding, per rendersi immediatamente conto di quanto egli abbia centrato il punto.
Ma Žižek offre diversi altri utilissimi spunti di discussione nell’articolo citato.
Innanzi tutto sulle evidenti responsabilità di quelle sinistre deideologizzate che, come già si è accennato, finiscono per lasciare l’intero campo del discorso politico al pensiero della controparte, che tanto più si radicalizza, quanto più si diffonde incontrastato.
«Dopo il crollo dei regimi comunisti del 1990, siamo entrati in una nuova era nella quale la forma predominante di esercizio del potere statale è diventata l’amministrazione esperta depoliticizzata e il coordinamento degli interessi. L’unico modo per introdurre un po’ di passione in questo campo, per mobilitare i cittadini, è la paura: la paura degli immigrati, della criminalità, della depravazione sessuale dei senza dio, di un’eccessiva interferenza dello stato (che si esprime con il controllo e l’aumento delle tasse), la paura della catastrofe ecologica, ma anche delle vessazioni (la correttezza politica è la forma esemplare della strategia della paura).
Questo tipo di politica fa sempre affidamento sulla manipolazione di folle spaventate e paranoiche, quelle che i greci chiamavano ochlos. Di conseguenza, l’evento politico più importante dei primi dieci anni del nuovo millennio è stato l’ingresso dei movimenti antimmigrazione nell’area dei partiti convenzionali, dopo aver finalmente tagliato il cordone ombelicale con quelli di estrema destra ai quali prima erano legati. Dalla Francia alla Germania, dall’Austria all’Olanda, nel nuovo spirito dell’orgoglio per la propria identità storica e culturale, adesso i partiti trovano accettabile sottolineare che gli immigrati sono ospiti che devono adattarsi ai valori culturali della società che li accoglie. “Questo è il nostro paese, prendere o lasciare”.
I progressisti, naturalmente, sono inorriditi da questo razzismo populista. Ma a guardare meglio scopriamo che il loro multiculturalismo tollerante e il loro rispetto per le differenze (etniche, religiose, sessuali) condivide con i movimenti antimmigrazione la necessità di tenere i diversi a debita distanza. Rispetto gli altri, ma loro non devono intromettersi troppo nel mio spazio. Nel momento in cui lo fanno, mi danno fastidio (…)».
Non va taciuto, poi, che l’articolo di Žižek prende le mosse da un altro evento simbolico che, anticipando di pochissimo il decennale del crollo delle torri, ne ha reso ancor più evidenti i nefasti effetti socio-politici (ultranazionalismo, individualismo esasperato, intolleranza, xenofobia, militarizzazione di ogni campo dell’esistenza), sui quali qui si sta cercando di ragionare.
Ci riferiamo chiaramente al massacro dell’isola di Utøya, in Norvegia, messo in atto, lo scorso 22 luglio, da un fondamentalista cristiano: tale Anders Behring Breivik.
Estremamente significative le righe che Žižek dedica alla descrizione del personaggio e del contesto politico in cui la sua delirante e criminale iniziativa è maturata:
«Breivik è apertamente razzista, ma filosemita e filoisraeliano, perché lo stato di Israele è la prima linea di difesa contro l’espansione musulmana. Vorrebbe perfino vedere ricostruito il tempio di Gerusalemme. Insomma, paradossalmente è un nazista razzista filosemita. Come è possibile?
Una spiegazione potremmo trovarla nelle reazioni della destra europea alla strage di cui si è reso responsabile. Il suo mantra è stato che, pur condannando i suoi atti delittuosi, non dobbiamo dimenticare che esprimono “una legittima preoccupazione per problemi reali”. (…)».
In definitiva, a ben vedere, qui abbiamo la conferma del fatto che a una sinistra evanescente – che nella sua ossessiva spinta moderatrice e centrista, finisce con l’assumere quelli che dovrebbero essere i tratti tipici di una destra liberale – si viene a contrapporre, apertamente, una destra di massa che tende a far sue le tematiche di fondo e l’irrazionalità del neofascismo, omettendo solo il richiamo esplicito a quella tradizione politica.
Non a caso, in Italia, è stato proprio il leghista Mario Borghezio a condannare la strage di Breivik, condividendone però le ragioni ispiratrici: le stesse, a suo dire, espresse da Oriana Fallaci nelle sue famose invettive anti-islamiche, post undici settembre.
Non a caso, proprio Borghezio è noto in Rete per i ‘preziosi’ suggerimenti, offerti alla destra identitaria francese:
«Bisogna rientrare nelle amministrazioni dei piccoli comuni, dovete insistere molto sull’aspetto regionalista del movimento (…), ci sono delle buone maniere per non essere etichettati come fascisti nostalgici, ma come un nuovo movimento regionale, cattolico, etc. ma sotto sotto rimanere gli stessi»
Ed anche in questo caso, Žižek offre una descrizione assai puntuale dell’attuale contesto politico europeo:
«C’è un partito centrista predominante che rappresenta il capitalismo globale, di solito con un programma culturale liberale (tolleranza nei confronti dell’aborto, dei diritti dei gay, delle minoranze etniche e religiose, e così via). A contrastarlo c’è un partito populista antimmigrazione sempre più forte le cui frange estreme sono apertamente razziste e neofasciste».
In altre parole, come ormai dovrebbe essere chiaro, oggi in Europa la partita politica sostanzialmente si viene a giocare tra due destre, quella liberale (che, di fatto, ha quasi interamente occupato il campo dell’altra parte) e quella xenofoba, autoritaria o neofascista che dir si voglia.
Con buona pace delle sedicenti sinistre riformiste, autocondannatesi a una sostanziale irrilevanza politica.
Come il lettore più attento avrà di certo notato, il discorso sugli effetti politici di lungo periodo della reazione americana agli attacchi dell’undici settembre, da ultimo, si è particolarmente incentrato sulla situazione europea. Questo perché alla logica dello scontro di civiltà e alla dottrina Bush della guerra preventiva permanente, quantomeno sul piano simbolico, gli USA, diversamente dall’Europa, hanno già provato a reagire, scegliendo di eleggere il primo Presidente di origini africane della storia del loro paese. Ovviamente, non rientra certo nell’economia di questo discorso una disamina accurata dell’operato del Presidente Obama. Tuttavia il Paese vittima degli attentati, di fatto, ha già scelto di voltare pagina. E il cambiamento proposto da Obama, almeno programmaticamente, nel suo contesto, risulta (nella forma) più ‘rivoluzionario’ delle attuali proposte delle sinistre riformiste europee. Il che può essere un discreto indizio a favore della tesi delle precondizioni più favorevoli al dilagare delle destre xenofobe e dell’individualismo esasperato, laddove le sinistre erano già politicamente più deboli. Infatti, l’impatto del crollo del mondo diviso in due blocchi, logicamente, è stato molto più devastante per quella sinistra che (più o meno apertamente) aveva flirtato col marxismo ortodosso, che non per la sinistra americana.
Sia come sia, l’inadeguatezza di una sinistra che sembra ormai incapace d’immaginare il futuro e di progettare un mondo e una società diversi e migliori, se non fosse già comprovata da quanto osservato fin qui, si rivela con tutta evidenza nel modo in cui le sinistre (soprattutto europee) non riescono ad affrontare la recente crisi economica.
Qui emerge il dramma di una classe politica che cede completamente il campo del discorso pubblico all’irrazionalità della controparte: di una destra che, in Italia, ad esempio, si vanta di saper “parlare alla pancia” dei cittadini elettori.
E se alla deliberata e dichiarata scelta di una parte politica che si rivolge ai bassi estinti, l’unica risposta sensata è la denuncia costante delle sue innumerevoli contraddizioni, la domanda inevasa non può che essere la seguente: perché queste enormi contraddizioni non vengono sempre denunciate come tali, ma anzi talvolta vengono assecondate?
In concreto, sul punto specifico che adesso si sta considerando: perché si accetta di descrivere una crisi finanziaria come una sorta di calamità naturale a cui non si può far altro che cercare di porre un qualunque rimedio, una volta che questa sia capitata?
Perché invece, ad esempio, non si dà il dovuto risalto alle lucide considerazioni svolte in proposito da un sociologo di chiara fama, quale è Luciano Gallino (14):
«Uno dei problemi di fondo di questa crisi è che le banche hanno contratto enormi debiti a causa di errate iniziative borsistiche come l’acquisto di titoli tossici. Debito che si è riversato sui deficit dei governi grazie ai salvataggi pubblici. Dal 2008 tanto negli Stati uniti quanto in parecchi Paesi europei, certamente nel Regno unito, in Germania e Francia, si sono fatte fior di politiche keynesiane “imbastardite” per salvare le banche. L’economia è stata salvata grazie all’intervento massiccio degli Stati, valutato tra soldi spesi e impegnati intorno ai 12–15 trilioni di dollari»
ragion per cui oggi
«il finanzcapitalismo ha disvelato il suo ultimo capolavoro: rappresentare il crescente debito pubblico degli Stati non come l’effetto di lungo periodo delle sue proprie sregolatezze e dei suoi vizi strutturali, largamente sostenuti e incentivati dalla politica, bensì come l’effetto di condizioni di lavoro e di uno stato sociale eccessivamente generosi»
Non è più che ragionevole ipotizzare che (almeno in Italia e in Europa) delle sinistre che non avessero ripudiato integralmente la questione della lotta di classe oggi non avrebbero alcuna difficoltà nel denunciare e nel combattere fermamente la dissennatezza e le mistificazioni di un capitalismo finanziario che, per usare alcune note ed efficacissime espressioni, sta facendo una vera e propria “lotta di classe alla rovescia”, cercando di instaurare una sorta di “socialismo per ricchi”?
E, ritornando su quanto detto in precedenza, di fronte al dilagare di una destra xenofoba che descrive i fenomeni migratori come una sorta di barbara e temibile invasione, perché la sinistra non ha il coraggio di denunciare l’assurdità di un modello economico che si fonda sulla libera circolazione delle merci e dei capitali, ma che poi vuole ostacolare (o addirittura impedire) l’altrettanto libera circolazione delle persone?
Perché la cosiddetta sinistra riformista si rifiuta di mettere seriamente in discussione il modello economico che genera il fenomeno migratorio di massa, rendendo così più difficile la creazione di un mondo aperto, accogliente e senza frontiere?
Perché le sinistre non riescono, cioè, a fare fronte comune nemmeno sull’ovvia considerazione che in un sistema economico che fosse in grado di garantire davvero il benessere diffuso di ogni area del pianeta, il fenomeno delle migrazioni di massa (e le susseguenti questioni di ordine pubblico che vi si potrebbero riconnettere), semplicemente, svanirebbe nel nulla, restando circoscritto alle eccezionali ipotesi di catastrofi naturali di immani dimensioni e rendendo, quindi, ogni individuo libero di scegliere dove vivere, senza che ciò debba più determinare alcun problema di insicurezza collettiva (reale o anche solo percepita)?
Insomma: se le sinistre europee, oggi, non hanno la capacità di far comprendere facilmente ai popoli che si propongono di guidare quanto sia stato folle appaltare (e in esclusiva) la questione dello sviluppo economico al mercato e far scorrere un intero decennio, inventandosi nuove crociate e nemici inesistenti da andare a combattere in giro per il mondo, guerreggiando fuori e innalzando mura e fossati immaginari dentro, non è anche e soprattutto perché esse stesse hanno ceduto al fascino della telepolitica dei bassi istinti e dell’immediato consenso da capitalizzare nei sondaggi d’opinione, accontentandosi di fare (quando è possibile) un po’ di amministrazione spicciola e nulla più?
L’auspicio conclusivo, allora, è che i tanti e diversi spunti di un discorso complicatissimo che qui abbiamo soltanto potuto abbozzare, ma che altri, in maniera più compiuta e autorevole, stanno già sviluppando, possano trovare presto una più ampia diffusione, diventando il cuore della rinascita delle sinistre che finalmente si riconnettono col proprio popolo. Un popolo di lavoratori, per ciò stesso maggioritario e in perenne conflitto con gli interessi del capitale, ma anche un popolo che sa benissimo che non c’è necessariamente un contrasto insanabile tra libertà e uguaglianza e che, forse, comprende altrettanto bene che la giusta sintesi va trovata nel valore rivoluzionario disperso: la fratellanza; da declinare però non più in chiave nazionale, ma planetaria (ossia: fratellanza del genere umano).
Se le sinistre riusciranno a rifondarsi su base umanista e laburista – socialdemocratica e keynesiana o socialista e neo-marxiana, a seconda di sviluppi che qui è semplicemente impossibile prevedere – forse, le cose potranno davvero cambiare negli anni a venire.
Diversamente, si rimarrà ancora a lungo schiavi della logica delle due destre, una dal volto feroce, l’altra dal volto un po’ più umano, ma entrambe piegate a difendere i medesimi interessi economici: quelli del grande capitale finanziario. L’unico elemento, tra l’altro, che sia in grado di trarre profitto da una logica di guerra permanente e da un ‘libero’ mercato generatore di infiniti conflitti e mostruose diseguaglianze. Ciò che, in ultima analisi, è accaduto nel decennio appena trascorso.