Letteratura

“Storia di Shuggie Bain” di Douglas Stuart

Sembrerà paradossale, ma il riscatto di Douglas Stuart e il suo primo romanzo, “Storia di Shuggie Bain”, non arriva con la vittoria al Booker Prize 2020, né con il consenso di critica che il libro ha generato. Tutto comincia, invece, a monte, cioè con la scelta di un editore indipendente statunitense, Grove Atlantic, che pubblica una storia di sopravvivenza e amore nella Glasgow degli anni ’80 e ’90, in piena epoca Thatcher. Stuart conquista, così, l’occasione di declinare la sua idea di letteratura al servizio di personaggi maturati in dieci anni di rifiuti e, nonostante questo, di scrittura minuziosa e continua attingendo dal suo vissuto personale. “Storia di Shuggie Bain” è il romanzo di una donna e di un bambino, madre e figlio, della famiglia disfunzionale che li ha generati e di una comunità a cui lo stato britannico ha tolto il lavoro, vincolandola a sussidi insufficienti e condannandola, così, alla dipendenza da alcool e stupefacenti. Quella di Douglas Stuart è la sfida vinta di un autore che ha scommesso sulla scrittura nella sua lingua, il Glaswegian, il dialetto di Glasgow che i personaggi parlano, e sulla narrazione della working class dimenticata.

La vicenda del romanzo

“Storia di Shuggie Bain”, in Italia tradotto da Carlo Prosperi e pubblicato da Mondadori, è un romanzo ruvido e sincero come la terra in cui è ambientato, la Scozia. Comincia nel 1992 con uno Shuggie sedicenne sul posto di lavoro e la mente che vaga in una giornata piatta e di routine. Stuart sceglie un incipit quasi poetico, sicuramente ponderato a lungo perché è uno schema che riproporrà in molti capitoli successivi, fino a quando le vicende non prenderanno corpo occupando totalmente i pensieri di chi legge.

La giornata era piatta. Quella mattina la mente lo aveva abbandonato, lasciando il corpo ad arrabattarsi là sotto. Vuoto, il suo corpo eseguiva svogliatamente i compiti quotidiani, pallido e spento nella luce al neon, mentre l’anima fluttuava sopra le corsie pensando solo all’indomani.

La mente vaga e il ragazzo pensa alle aspirazioni messe in pausa, alla vita da solo in una stanza in affitto a Glasgow, quella in cui, quando torna, è solito scrutarsi allo specchio con severità. Quello della “mancata mascolinità”, per Shuggie, è un cruccio le cui radici si sveleranno nel lunghissimo flashback che è il romanzo che segue e che comincia nel 1981 a Sighthill, un complesso residenziale di Glasgow. Qui vivono Agnes Bain, i suoi tre figli, il piccolo Shuggie, Catherine e Leek, questi ultimi figli del suo primo marito, e Big Shug, un tassista protestante padre del bambino. Vivono assieme ai genitori di Agnes, Lizzie e Wullie, in un unico, squilibrato e soffocante nucleo familiare al sedicesimo piano dei casermoni di Sighthill. Agnes ha 39 anni e il suo viaggio verso l’autodistruzione è appena all’inizio: la sensazione di vivere una vita fallimentare, perché ancora a casa coi suoi, col sospetto che il compagno la tradisca, e una crisi di nervi all’orizzonte che esploderà con tutto il suo vigore qualche ora più tardi. I due figli adolescenti sognano di scappare via lontani da lei, chi in Sudafrica chi anche solo qualche isolato più in là, mentre Shuggie, cinque anni, la ama incondizionatamente e lo farà in ogni giorno della vita complicata e furiosa di sua madre. “Storia di Shuggie Bain” è, quindi, contemporaneamente un racconto sociale di un’epoca nemmeno tanto lontana per la storia britannica e la storia d’amore infinito tra questo bambino e la madre che gli è toccata e che lui adora più di ogni altra cosa, pure nell’ubriachezza molesta, nei tentativi di suicidio, nella depressione e nelle relazioni sbagliate. Ma il romanzo è anche la narrazione di una vita in evoluzione, quella di Shuggie, che attraversa l’infanzia afflitto da una diversità evidente e per lui pesantissima. Una diversità fatta di intelligenza complessa, empatia commovente e la ricerca ossessiva di un tratto mascolino comune con i coetanei. Questa “diversità” viene coltivata con cura da Agnes, soprattutto nei suoi periodi lucidi, e a Shuggie compra bambole, lo invita a ballare, gli corregge l’accento scozzese per renderlo più vicino all’inglese forbito e, soprattutto, cerca di proteggerlo da un padre miserabile. Tutto questo, però, non sarà sufficiente per tirarla fuori dal suo gorgo di dolore e metterà a dura prova il piccolo protagonista nella sua battaglia con la “normalità”.

Shuggie […] Non voleva fingere che non ci fosse nulla di male nel giocare con i giocattoli da femmina o nel toccare le parti vergognose dei ragazzi di scuola media. Non voleva somigliare in niente alla bambina dai capelli color limonata. Non voleva essere come Agnes. Voleva essere normale.

Il talento di Douglas Stuart, evidente, sta nel non aver reso Agnes e Shuggie due mostri di dolore, ma confeziona per loro una capacità poetica sconfinata. Del resto in loro c’è la vita di Stuart stesso, che perde la madre a sedici anni proprio per colpa di alcolismo e dipendenze e che ha vissuto in prima persona la Glasgow che descrive con enorme affetto.

La copertina del libro-reportage sulla Glasgow anni ’80 del fotografo Raymond Depardon

Fenomenologia di Agnes e Shuggie Bain

L’autore rende Agnes volutamene appariscente ed estrosa, sempre curata quando tranquilla, pur fiaccata dal luogo deprimente in cui andrà a vivere (un ex quartiere di minatori caduti in disgrazia perché disoccupati). A Shuggie, che si è già detto empatico e speciale, regala la rara capacità di non cedere alla rabbia e alla paura, nemmeno quando lei stessa urla ubriaca per telefono alla ricerca del compagno fedifrago. La storia d’amore tra madre e figlio fiorisce nell’orrore della dipendenza, verso la quale non c’è accondiscendenza, ma, come si è già detto, empatia. Agnes non viene giudicata dall’autore nemmeno quando sarà evidente il declino; per lei Shuggie continuerà a ballare, le insegnerà le coreografie dei video di Michael Jackson, le pettinerà i capelli e la controllerà mentre dorme. Una cura parentale reciproca, una carica di responsabilità che Shuggie poserà sulle sue spalle incurante dell’ordine delle cose: è sua madre, è il suo riferimento pure nei momenti più bui, è suo dovere prendersene cura e provare ad “aggiustarla”. Con la madre, Shuggie condivide un bisogno urgente di essere amato e accudito, ma entrambi andranno avanti con mezzi di fortuna che si sono costruiti da soli. E attraverso i suoi personaggi principali Stuart fa una analisi impeccabili di emozioni umane comuni: la vergogna, soprattutto quella di Agnes per la sua dipendenza, la responsabilità, il senso di colpa e la felicità appena accennata, in un loop continuo di ricadute, quelle di Agnes, e speranza, tutta di Shuggie, bambino cresciuto da una famiglia troppo impegnata a sopravvivere per dargli retta.

Gli antagonisti: il patriarcato e il contesto sociale

A contrastare la forza dell’amore tra Agnes e Shuggie c’è quella distruttiva di Big Shug, l’unico eroe negativo del romanzo: violento, rozzo, vendicativo. È lui il cattivo del romanzo anche se vittima, a sua volta, di mostri peggiori: una comunità, quella della costa occidentale scozzese, annientata dalla politica del governo e mandata, poi, alla deriva con sussidi insufficienti e lo spettro della dipendenza da alcolici e droghe che nessuno sa trattare. In questo contesto, cioè nella working class scozzese a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, è il patriarcato a fare i danni collaterali peggiori. Un patriarcato che, come racconta lo stesso autore, prospera nella disperazione e innesca omofobia e misoginia. Gli uomini sono disoccupati perché il governo Thatcher ha chiuso miniere e cantieri navali e senza lavoro vivono in condizione di povertà. Le donne, a cui il patriarcato ha vietato severamente il lavoro, perché destinate a essere esclusivamente mogli e madri, si ritrovano spesso abbandonate da mariti irragionevoli, capricciosi o distrutti dall’alcool, prive di entrate e di ogni possibilità di trovare un lavoro perché senza titoli di studio. L’altra manifestazione distruttiva del patriarcato è il bullismo dei compagni di scuola verso Shuggie, istruiti dal sistema a bersagliare il diverso, destinati a replicare le vite dei loro padri in un mondo che schiaccia le individualità e trita le speranze. È questo il sistema che giudica Agnes e Shuggie e li emargina. Ma gli effetti del patriarcato, della crisi economica e occupazionale non affliggono solo Agnes e la sua famiglia, ma una intera comunità, ridotta a recuperare sussidi in mattinate funestate da gin e birra bevuti in enormi tazze da tè.

Agnes e la dipendenza

In questo spaccato della Glasgow degli anni ’80, si beve continuamente, a ogni età, per ritrovare la speranza e una ebbrezza passeggera dalle conseguenze devastanti. Agnes presenta tutte le caratteristiche degli alcolisti: la tendenza a incolpare gli altri della sua condizione e la speranza di anestetizzare il dolore e la solitudine con fondi di birra abbandonati nella borsa.

Con il viso sempre truccato e i capelli in ordine, la madre si risollevava dalla propria tomba e teneva la testa alta. dopo essersi gonfiata d’alcol e aver fatto le cose più disdicevoli, si alzava il mattino dopo, indossava il cappotto migliore e affrontava il mondo. Quando aveva la pancia vuota e i suoi figli pativano la fame, si pettinava i capelli e lasciava che il mondo pensasse il contrario.

Si disintossica più volte Agnes, e più volte ricade nell’errore, ma nella sua mente resa violenta e annebbiata dall’alcool, c’è sempre spazio per i sogni sul futuro di Shuggie. Lo pregherà, in un dialogo difficile da dimenticare e per certi versi anche paradossale, di rimanere così speciale e tranquillo anche da adulto, magari «con l’aria meno corrucciata» di come lo vede adesso, a dieci anni. Agnes è consapevole del peso che porta suo figlio sulle spalle. Shuggie le guarda e le dice, nell’ingenuità infinita di bambino, che lui ha un solo sogno: rimanere per sempre con lei. Douglas Stuart rende in un dialogo la devozione di un figlio verso una madre che è tutto il suo mondo e che non smetterà mai di credere di poter salvare.

Lingua, scrittura e messaggio di Douglas Stuart

La peculiarità di “Storia di Shuggie Bain” non si ferma ai temi, ma sfonda tutte le credenze sul linguaggio letterario. Stuart alterna questa scrittura barocca e altamente descrittiva, ricca di dettagli che sarebbero altrimenti impercettibili, a dialoghi nella lingua di Glasgow che cambia l’ortografia dello Standard English. Continua, allora, il filone fortunato della letteratura anglosassone che non rappresenta più i soliti noti, ma si prende la briga di indagare la working class e il suo linguaggio crudo, sguaiato, così stretto nel suo slang da risultare quasi incomprensibile.

Di contro, si diceva, le descrizioni: Shuggie che liscia il cappotto della nonna in un momento di enorme difficoltà per la famiglia, o che prova il mascara della madre e si vede bellissimo allo specchio, o che per calmare la madre, già completamente sbronza, le spazzola i capelli neri e disordinati. E mentre tutti questi piccoli gesti provano a ripristinare la bellezza in una vita disastrata, Agnes lentamente scompare, distrutta dai giudizi frettolosi su dipendenze e fragilità, lasciando il suo bambino solo in un luogo infelice. E Shuggie, l’eroe inconsapevole del romanzo, quasi non se ne accorge, preso com’è dallo sforzo di amare, nonostante tutto.

«Mia mamma una volta ebbe un intero anno buono. Fu meraviglioso.»