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Syd Barrett: una gioventù in fiamme

Potremmo cominciare col dire che i Roger nei Pink Floyd furono due fin dall’inizio. Uno dei due però, quello portato dalla prima befana post bellica, il 6 gennaio del 1946, decise di passare alla storia col nome di Syd.

Syd alla musica si avvicinò intorno ai 14 anni, abbracciato all’ukulele in una delle centinaia di skiffle band che popolavano soprattutto Londra e Liverpool. Fino a quell’età era molto più incuriosito dalla scrittura, con una particolare predilezione per quella “nonsense”, per i giochi di parole e le assonanze. Non sarà tempo perso, dato che questa passione, unita alla ricerca musicale, segnerà e non poco la sua vena compositiva psichedelica quando si dedicherà totalmente alle canzoni. Al padre ruba sicuramente la passione per la pittura, e in parte anche quella per i funghi, virando principalmente su quelli allucinogeni.

L’influenza della musica americana, come la storia della musica inglese del dopoguerra ci conferma, folgora all’istante la generazione di Syd, e, anche lui, come tanti coetanei, comincia ad avere in mente di mettere su una rock band, portando in tasca i nastri dei Beatles che ce la stanno facendo. La genialità di questo ragazzino di Cambridge non tarderà a farsi notare. Non stupisce dunque di trovarlo, solo qualche anno dopo, a registrare canzoni nello studio di culto della capitale.

Agli studi di registrazione di Abbey Road sono successe molte cose che hanno a che fare con quella che conosciamo come storia della musica. Quel posto ha fatto scuola per tanti aspetti, incluso insegnare ad attraversare la strada sulle strisce pedonali. Nell’immaginario collettivo è la casa (o una delle case) dei Beatles, ma, va detto che anche i Pink Floyd ci hanno soggiornato spesso.

Nel 1967 i baronetti preparavano Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, che avrebbe visto la luce il primo giorno di giugno e, praticamente porta a porta, i Pink Floyd erano alle prese con il loro album di debutto, The Piper at the Gates of Dawn, guidati da un ispiratissimo Syd Barrett, che aveva già firmato per la band due brani spettacolari come Arnold Layne e See Emily Play.
Questi due singoli avevano entusiasmato il cuore sotterraneo di Londra e creato un’attesa spasmodica per il debut album. Sì, perché i Pink Floyd, per molti giovani della capitale, non erano soltanto un altro dei tanti gruppi pronti a scalare le classifiche, ma i portavoce e il riferimento di tanti, il gruppo del movimento che emergeva, portandosi dietro incenso, campanellini, capelli lunghi, barbe e ricerche identitarie e affermative.

Ci sono storie che non finiscono sui dischi, ma che raccontano chi era Syd e la sua band per la Londra underground. Tutto era cominciato con l’appuntamento fisso all’Ufo Club del venerdi sera, locale che sta ai Pink Floyd come il Cavern sta ai Beatles, ma in cui si respirava un’atmosfera nuova, in cui si mescolava la ricerca musicale, con le performance d’arte e la poesia d’avanguardia sulla scia della Beat Generation. Tutto questo portò al primo grande evento multi disciplinare mai visto prima a Londra, l’incredibile show “14 Hour Technicolor Dream”, la cui chiusira, fu affidata proprio a Syd e soci, che non delusero le aspettitive con una memorabile esecuzione di Interstellar Overdrive incorniciata dai tagli di luce dell’alba che entravano dalle vetrate. Era la conferma che i Pink Floyd avevano intercettato e incanalato tutta quella energia creativa e ribelle della swinging London che si identificava con loro e con le nuove frontiere che erano pronti a esplorare insieme.

La storia di Syd però non è così lineare, non cresce di palco in palco e di successo in succeso, anzi è un giro sulle montagne russe, sebbene resti genialmente sbilenca, fortemente emotiva e profondamente artistica, e raccontarla è sempre complicato, anche perché ci sono dei buchi di anni, di cui non si sa davvero nulla. Ci resta una discografia preziosa sebbene risicata. Oltre a quanto detto, va aggiunto il brano Jugband Blues ancora con i Pink Floyd, finito sul secondo album della band (A Saucerful of Secrets), prima di un paio di album a suo nome, The Madcap Laughs e Barrett, entrambi del 1970, realizzati con l’aiuto di David Gilmour, suo amico di vecchia data e, di fatto, almeno a livello numerico, suo sostituto nella band. Gilmour coinvolse anche Waters e le canzoni videro più velocemente la luce. Alla storia non è passato invece il tentativo precedente, ideato dall’etichetta, di mandare in studio con Barrett, buona parte dei Soft Machine a cominciare da Robert Wyatt, che dopo una serie di tentativi abbandonarono l’impresa.

Di Syd ci restano una quarantina di canzoni, l’invenzione della prima band psichedelica con annesso light-show, lo spettacolo di luci che avvolge le performance, e l’amarezza della sua esistenza solitaria lontano dalla musica. E pensare che i primi segni di cedimento che lo misero fuori gioco dal grande palcoscenico del rock, e dai Pink Floyd, arrivarono prima e durante quello che sarebbe potuto essere il più grande tour psichedelico di sempre, insieme a Jimi Hendrix. Sì perché a volte, passa un po’ sotto traccia come Syd metteva le mani sulla chitarra, dipingendo mondi sonori ancora inesplorati, e restando un riferimento negli anni a venire.

Syd cominciò a rifugiarsi nel silenzio, dopo il suo crollo nervoso e mentale, e dunque non ci fu molto da dire, come spesso raccontano i suoi amici di band – semplicemente un giorno non passarono più a prenderlo. La faticosa realizzazione dei due album fu una breve parentesi che lo riavvicinò, almeno fisicamente, a Gilmour e Waters, ma poi si eclissò definitivamente, e se ne persero le tracce, mentre il progetto Pink Floyd andava avanti e si espandeva sempre più. Chissà se la musica, i Pink Floyd o nuove canzoni si sono affacciate nella mente di Syd negli anni a seguire, purtroppo non è dato saperlo. Una cosa invece è certa, e se ne hanno le prove: Syd dalla mente dei suoi amici non è mai scomparso definitivamente.

Waters, Mason, Wright e Gilmour, dopo lo stratosferico successo di The Dark Side of the Moon, si ritrovano nel 1975 ancora a Abbey Road, pestando tutti insieme quelle strisce così care ai Beatles. Hanno in mente di registrare un mini album, un concept, dedicato proprio al loro ex capo, mettendoci dentro il ricordo di quella genialità che li aveva contagiati tutti anni prima. Wish You Were Here è il titolo della raccolta di canzoni, che si apre e si chiude con le due parti di Shine On You Crazy Diamond. Tuttavia la quesione è controversa, Gilmour ha spesso negato che quelle canzoni avessero a che fare con Barrett, ma taluni riferimenti sono innegabili. In ogni caso i quattro sono presi dalla chiusura di questo brano, tra sala e banco mixer, e ormai c’è da sistemare solo le voci. Roger Waters è seduto alla consolle, dietro di lui, già da un po’, si aggira un tipo calvo e appesantito, che fa cose strane, ma senza infastidire. Nessuno ci fa caso più di tanto, ognuno pensa che sia amico di qualcun altro. Finchè Nick Mason si rivolge a Waters: “ Chi è?”. “ Non lo so” è la risposta di Roger.

“Ho pensato che era un tuo amico”, conclude Mason, ma ormai tutti vogliono capirci di più e cominciano a fissarlo. Non sono passati più di sette, otto anni da quando avevano visto per l’ultima volta Syd. E ci misero ancora un po’ a riconoscerlo quel giorno prima di rimanere di sasso davanti a lui. Quel 5 giugno, data di inizio delle registrazioni dedicate a Syd, per un motivo del tutto ignoto, proprio lui decide di fare un salto lì, senza sapere nulla di cosa stessero tramando gli altri. Waters nel ritrovarlo così mal messo non trattiene le lacrime. Syd pare contento di vederli ma non è di molte parole e sembra comunque assente a se stesso. Sono tutti lì e l’occasione è troppo ghiotta per non chiedergli cosa ne pensasse di quanto ascoltato, di quella canzone pensata per lui. Syd non si sottrae e prima di uscire da quella porta e sparire per i successivi 31 anni, risponde: “Mi sembra un po’ vecchia”.