E quel Corvo senza un volo siede ancora, siede ancora
Sul pallido busto di Pallade sulla mia porta.
E sembrano i suoi occhi quelli di un diavolo sognante
E la luce della lampada getta a terra la sua ombra.
E l’anima mia dall’ombra che galleggia sul pavimento
Non si solleverà “Mai più” mai più.
(Il corvo, E.A. Poe)
Subterranean Tapes è la raccolta mensile degli album che provengono dal sottosuolo. Ogni mese un’accurata selezione delle novità più interessanti che meritano di uscire dal buio.
BARRO, Miocardio, A Buzz Supreme
2 ottobre
Fa capolino in Italia, in colpevole ritardo, Miocardio opera prima del brasiliano Filipe Barros, già tra i fondatori dei Bande Dessinee. Il ritmo di Recife è termine conduttore dell’album ma, oltre alla saudade (Mata Ô Nêgo) e al mescolio dei linguaggi (Via, che apre l’album, viene rivisitata sul finale per l’uscita italiana in compagnia di Serena Altavilla dei Calibro 35, in una specie di tributo ai duetti italo-brasiliani degli anni ’70) si apre verso panorami pop più europei. L’argilla di cui si compone questo debutto, reale significato del moniker Barro, viene plasmata con l’aiuto dei vari artisti che vi partecipano, a livello sia strumentale che di vocalità, oltre alla già citata Via, nelle collaborazioni di Volver, Nouvelles Vagues e No Era, ognuna capace di mantenersi nella propria indipendenza. Tinte brasiliane, sì, che si tingono di melodramma in Despetalada, ma anche in termini afro e più arrembanti (Carpe Diem). L’identità di Miocardio è qualcosa che si confonde e si plasma con le note e le diverse esperienze che ne convergono, abbattendo linguaggi e confini di un ambiente lontano anni luce dall’idea che possiamo avere della nazione carioca. Todo Pôr Do Sol, effettivamente ti spinge al dolce saluto della title-track, sopra le dolci spiagge di una Recife al tramonto. Oltre al pallone, ma questo lo sapevamo già, c’è tutto un mondo da scoprire.
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PLASTIC LIGHT FACTORY, Hype, Hype Records
5 ottobre
L’Hype dei Plastic Light Factory ha diverse radici, ed è come quella necessità di contrasto fra mods e rockers di Quadrophenia, prima della battaglia di Brighton. È uno scontro violento, fatto di due sfere incompatibili ma essenzialmente destinate a convergere insieme, che per un attimo si accorgono di non essere così diverse dal proprio avversario, il cui risultato sarà poi rappresentato dal britpop mai quieto dei Blur e dall’irrisolvibile dualismo di Song 2 e Beetlebum. In modo simile i Plastic Light Factory si appropriano di una materia, quella pop, rigirandola nel glam e nella psichedelia instancabilmente, come se esitando un attimo quel sottile equilibrio potesse da un momento all’altro crollare e causare di nuovo lo scontro che cercano di allontanare. Robyn, in questo senso, è il brano più di richiamo, mentre in cassa risuonano tante voci che condividono la stessa provenienza. Vorticoso come il modo di approcciarsi al genere di musica che hanno in mente, i Plastic Light Factory non si discostano particolarmente dai loro modelli di riferimento, ma è anche grazie a questo che lo scontro diventa possibile. Che sia la ragione che spinge a rincorrere un treno delle 5.15 verso Brighton (Oceanic Trench) o soltanto la necessità di allontanare lo sguardo di Jimmy che, sul finale della pellicola, si sente tradito da tutto.
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CABEKI, Non ce la farai, sono feroci come bestie selvagge, Brutture Moderne
7 ottobre
Secondo una leggenda giapponese due dei più grandi forgiatori di katane, Masamune e Muramasa, si sfidarono per scoprire chi fosse fra loro il migliore. Le due spade vennero appese a una sporgenza di un fiume, con la punta immersa nell’acqua. La spada di Muramasa tagliò ogni cosa che incontrava mentre quella di Masamune nessuna. Il primo, più giovane, si innervosì per il disinteresse del suo maestro, che aveva rinfoderato la sua creazione. Un monaco vedendoli disse ai due che quella di Muramasa era senza dubbio tagliente ma anche la più violenta, perché non faceva differenze e come poteva uccidere una farfalla così poteva fare con le teste. Quella di Masamune, invece, era certamente la più tagliente fra le due e anche la più buona, perché non tagliava nulla senza motivo. Il segreto di Masamune era quello di unire insieme diversi strati di acciaio che rendevano le sue spade le più affilate ma conferivano, contemporaneamente, una sorta di coscienza sulla loro forza in chi le possedeva. Allo stesso modo i suoni di Cabeki si addensano insieme, riunendo le parti trovate divise, come un vecchio liutaio nero del Mississipi che non abbandona mai un banjo distrutto o un moderno Walden che raccoglie le foglie cadute dagli alberi per non lasciarle sole. La chitarra è accompagnata da fiati e violoncello, da una viola che addolcisce la drammaticità di Disgelo, fino a Prima Luce, un vero e proprio risveglio che inaugura un percorso senza meta fino alla sua conclusione (Ultima luce), quel tramontare del sole che tocca tanti luoghi e sentimenti differenti. La stratificazione sonora è profonda e taglia ciò che incontra, ma in un modo delicato e particolare, dalla devastazione a una calma finalmente riconquistabile solo ascoltando i suoni della natura e di strumenti incredibilmente amichevoli. Non ce la farai, sono feroci come bestie selvagge si compone come una lunga dissertazione musicale e una ricerca di pace, in cui Andrea Faccioli illustra divisioni e rotture ma che armonicamente si ricostituiscono come un’unico e denso viaggio in terre dominate da incubi e speranza. Dice un’altra leggenda, Masumane divide le foglie, Muramasa le unisce.
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D. D. DUMBO, Utopia Defeated, 4AD
7 ottobre
Ci siamo ritrovati spesso a sognare l’Australia, e non solo per la questione Tame Impala e tutto il movimento che si portano dietro. C’era chi voleva trovare un posto nel mondo, e chi soltanto si trascinava l’idea che quel paese dovesse per forza avere qualcosa di speciale. D. D. Dumbo e il suo esordio Utopia Defeated non esce particolarmente da questa dimensione immaginifica, forse perché in ogni leggenda c’è sempre qualcosa di vero, ma cerca di fare del proprio disincanto un’arma con cui rintracciare la realtà. Fra spiriti guida (Walrus) e personaggi totemici (Franco Picasso), la matrice modern soul si confonde in immaginari psichedelici e dream pop, in cui l’opposizione fra la ritmicità di percussioni analogiche ed elettroniche si associano a una voce calda che connette un brano all’altro. Il confronto con l’utopia, mediato da voci a tratti aliene sullo sfondo, si riproduce costantemente, sia che spinga a una ridefinizione (Satan) o un’insospettabile riproduzione di stilemi vintage (The Day I First Fond God). L’esordio full-lenght di Utopia Defeated conferma e assicura le potenzialità del precedente Ep, e mette D. D. Dumbo in una posizione privilegiata, se non aprendo una nuova dimensione del dream pop che avevamo lasciato a Perth.
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WAS, Sunday, DeAmbula Records/ Costello’s Records/ Tiny Speaker Records
11 Ottobre
Quelle di Was sono le domeniche di ottobre, il cielo grigio, la noia che ti immobilizza e l’incapacità di alzarsi dal letto la mattina. Guardi fuori dalla finestra e forza ne trovi solo per mettere su il disco giusto. Hanno qualcosa di Bauhaus, specie nell’intro di In This Shore, ma forse si tratta solo della malinconia di alcuni brani di The Sky’s Gone Out, per come il suono ti accarezza, e anche se oggi è martedì la necessità di ripararsi non è ancora passata, come quando le cose ti mancano e non possono più tornare o quando ti accorgi che le parole si fanno già vapore. Sunday è un disco che velocemente prende altre direzioni, sfondano in un electrofolk fatto di inquietudini e nostalgie, senza sfociare davvero mai nella sua componente più tetra. Il passaggio di A Swamp a Marten quasi non si percepisce, paragrafi che si implicano a vicenda, e tutto scorre con un’intensità costante, senza cadute, appena in tempo perché il caffè della moka cominci a bollire e lo sguardo riprenda il fuoco sulle cose. Sarebbe bastato stringerci più sotto le coperte, sembra dirci Take Cover, per scacciare i fantasmi delle stanza di Funny Mate, e forse quella vicinanza che non si riesce proprio a bloccare è il tema di tutto l’album, prima che un’altra settimana ci porti via.
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MARABOU, The End of The Rainbow, Costello’s Records
11 ottobre
Un naturale proseguimento di Sunday, per uno strano gioco del destino, sembra essere The End of The Rainbow, dalle tonalità certamente più oscure e molto meno accomodanti. Anche qui troviamo una malinconia elettronica che disegna un panorama autunnale, ma l’influenza downtempo movimenta e rinvigorisce la stessa materia che tocca. Garden’s Dream, ad esempio, lascia liberarsi drum machine e loop station sotto la guida di una voce appena sussurrata e in costante reverb, costante di tutti i brani dell’album, liberandosi dalla gabbia del linguaggio. Solo un ascolto particolarmente attento, infatti, permette di distinguere le parole di Marabou, alter ego del catanese Giovanni Alessandro Spina, trasformando la narrazione in una faccenda personale a chi la scrive e a chi la ascolta, sia quando si lascia andare a una dimensione più deep (Simon) o si passa a una concentrazione più armoniosa e melodica (Laboon). La chiusura di Sunset è, in qualche modo, riassunto di tutto quello precedentemente ascoltato, in cui si cristallizzano, finalmente liberate, tutte le derivazioni che Marabou accenna come preparazione lungo tutto l’album. Forse perché nessuno, prima, aveva avuto il coraggio di cercare un arcobaleno nel buio.
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PUSH BUTTON GENTLY, ‘Cause, Moquette Records
12 Ottobre
Dietro a ‘Cause c’è un lungo e complicato lavoro di costruzione, tanto che il progetto nasce da delle improvvisazioni nel 2014 e vede la sua conclusione solo due anni dopo, con aggiunte e quadre trovate in fase di registrazione. I motivi di tutta questa attesa si chiarificano immediatamente dal caleidoscopio di sonorità fuzz, pop e rock in tutte le possibili confluenze e derivazioni che presenta al suo interno. Proprio come nello strumento ottico a ogni inclinazione corrisponde una differente scomposizione, così ogni traccia cambia pelle senza fermarsi. Ci sono accenni di surf rock nei cori di Morning Sailor e 10, un pizzico di Blur in Hide o un vago ricordo di Sonic Youth in Holy che si scioglie lentamente nel lo-fi ripreso da 13. I Push Button Gently nonostante questo conservano una dimensione di originalità totale, insieme alla versatilità che dimostrano in tutto il disco. Rapide e corpose sono le chitarre a cui viene affidato spesso il compito di sostenere la struttura sonora, senza renderla però dipendente da un solo elemento, come dimostrato nel continuo alternarsi di Me and The Giant Sent Off. Ciò che è ‘Cause è ancora da comprendere del tutto, e un po’ disorienta, ma per buone ragioni.
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DOUGLAS DARE, Aforger, Erased Tapes Records
14 ottobre
Erased Tapes è, da sempre, in prima linea nella diffusione, e conferma, delle nuove tendenze e il nuovo album di Douglas Dare non fa eccezione. Ciò che succede è rappresentato bene dall’illustrazione della copertina, una figura perturbante che per natura dovresti fuggire ma che ti attrae per la stessa ragione. Difficile da definire, proprio come il genere che stiamo ascoltando, a tratti riconducibile a Hopenlessness di Anohni, ma con una dimensione quasi più pastorale e tetra, se poteva capitare davvero. L’impronta di matrice soul si confonde bene sotto la struttura elettronica che tende ad ampliare il respiro delle parole. Né ostile ma nemmeno così accogliente, Aforger è un disco bianco e freddo in cui specchiarsi, eppure così enigmatico e oscuro, nelle sue riproduzioni sonore che si avvicinano alla malinconia di The Colour in Anything di James Blake. Mancano degli improvvisi cambi di ritmo che facciano un attimo riprendere fiato in tutta la sua densità. Un ascolto molto attento è necessario per non perdere tutto, e farsi avvolgere in una situazione che si carica dei propri incubi.
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MURUBUTU, L’uomo che viaggiava nel vento, Mandibola Records
14 ottobre
Nel mondo hip hop italiano, almeno nella componente più mainstream che fa impazzire le ragazzine, il gusto della ricerca stilistica e dello storytelling si è un po’ spento, declinato su flow corretti e sentimenti di facile coinvolgimento. L’esatto opposto accade ne L’uomo che viaggiava nel vento, un’altro volume nella libreria di Murubutu, uno degli ultimi paladini dell’old school, da sempre fedele alle regola per cui i versi non devo essere soltanto musicali ma devono soprattutto ferire chi li senta. Metafore preziose, veri e propri racconti che confondono il confine fra ciò che proviene dalla letteratura e la realtà che vive il suo paroliere (La bella creola), accompagnato da guerrieri di tante battaglie (La Kattiveria) e nuovi personaggi con cui incrociare la spada (Dargen D’Amico, Ghemon, Rancore, Dj T-Robb, Dia, Amelivia). Non stiamo parlando di un disco violento, se non per come ti crea un buco dentro (Mara e il maestro), né di quelle gang story che cercano di imitare i fondamentali più muscolari (nemmeno quando il flow si velocizza e i beat si fanno più duri come in Bora), ma del trionfo della parole e delle loro capacità di trascendere un genere e spingerlo oltre. Ne è una dimostrazione Dafne sa contare in cui alla voce profonda di Murubutu si accosta quella più delicata di Amelivia che ritorna allo stesso modo nella title-track, ricordando certi reciproci sdoganamenti di genere frequenti fra anni ’90 e 2000. Ma è una narrazione che ricorre, si veste di immagini differenti a ogni nuovo rapconto che comincia. L’attenzione che viene prestata alla metrica, e la capacità di cristallizzarla in un tempo sospeso, contrastano profondamente con le necessità di immediatezza nel ragionamento sull’oggi che esce dalle diverse voci di Levante. L’uomo che viaggiava nel vento raccoglie i pollini nell’aria per raccontarne ogni molecola.
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BEWIDER, Dissolve Ep, Autoproduzione
17 ottobre
Il progetto Bewider ha un’impronta cinematografica, ma non dal punto di vista della traccia creata per accompagnare le immagini. Già da sola riesce a trasmettere abbastanza, le luci di Shaping Lights richiamano quell’effetto di spontanea meraviglia delle sale che lentamente si spengono per far partire il film. È un ritornello che si ripete, mantenendo costante il livello di intensità man mano che si procede lungo il disco, anche quando in Beneath the Sky compaiono le prime parole, che ritornano in Durst Orbs anticipando la conclusione soft di Evolve. Il materiale si ripropone in tutte le sue forme, seguendo una trama ordinata e lineare, anche se tende a protrarsi forse eccessivamente in alcuni passaggi, dilatando anche le necessità di attenzione. Ma Dissolve conserva una sua intima ragione da ricercare.
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