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L’ultimo concerto dei Beatles, tra cielo e terra

Quando nell’immaginaria cittadina di Springfield negli Stati Uniti, la nota band locale The Be Sharps decide che è giunta l’ora di una reunion, sceglie un tetto come palco. Tra la folla incuriosita che si accalca sulla strada, si fa spazio una grossa automobile, da cui scende George Harrison che osservando l’avvenimento sentenzia: “È stato fatto”, e va via. Di Springfield ne esistono una settantina, più della metà degli stati ne ha almeno una. Questa qui però è quella mutevole, disegnata da Matt Groening per i Simpson, e la band in questione è quella di Homer, che si esibisce sul tetto del bar di Moe, e anche l’ex beatle è un cartone animato, che però dice una sacrosanta verità. Sì perché furono proprio i Beatles a suonare su un tetto per la prima volta, dopo aver smesso, da qualche anno, di salire sui palchi. Sarà la loro ultima volta, prima di prendere ognuno la propria strada. Ma quella secca frase di Harrison, se si ripercorre la vicenda della band di Liverpool, si può riferire anche a molto altro che i quattro fecero per primi. È in quella creatività fuori protocollo, in quella curiosità di spingersi avanti, di osare, in quello spirito pionieristico che forse va rintracciata una delle caratteristiche che ha fatto la differenza a loro vantaggio.

Eppure, quando salirono sul tetto, non era certo un periodo semplice e idilliaco: le tensioni erano al massimo e i rapporti tra di loro, che pure avevano da sempre avuto un legame artistico e umano importante, ai minimi storici. George era sempre più attratto da una ricerca esistenziale e musicale che volgeva – ormai da tempo – lo sguardo a oriente, Ringo era sempre più affascinato dall’esperienza cinematografica, John, in una fase di transizione, offuscato dall’eroina, era quasi pronto ormai a una nuova fase esistenziale da condividere con Yoko, lontano dai Beatles e dall’Inghilterra, con il solo Paul a tentare di tenere insieme il progetto, spesso in modo così ingombrante da scatenare ulteriori attriti, come quello molto duro con George, che è anche documentato da immagini ormai storiche.

Siamo nel gennaio del 1969, in fase post “white album” e l’ultimo concerto risale a ben due anni e mezzo prima. Avevano detto stop alle esibizioni dal vivo per le difficoltà tecniche a comunicare la loro musica a un pubblico che con le urla sovrastava talvolta gli impianti; aspetto, questo, che si sommava al forte stress avvertito dopo anni vissuti a ritmi pazzeschi. La loro storia comune comincia ben prima del successo, bisogna risalire fino all’adolescenza, dalle scuole superiori con i Quarrymen, fino ai locali di Amburgo, a suonare cover, passando per la breve parentesi col nome Silver Beatles, prima di accogliere Ringo Starr al posto di Pete Best e avviare la parte più nota del viaggio. Se si guarda la loro agenda di lavoro dal 1963, ci si rende facilmente conto della pressione sopportata da quelli che erano tutto sommato ancora dei ventenni o poco più. La condivisione del palco, inoltre, cementava costantemente la loro traiettoria complessiva di gruppo umano, oltre che musicale. Le composizioni in studio non bastavano a sostituire quella condivisione e quel vissuto così intenso, anche perché, a differenza di tutta la prima fase, sebbene le canzoni venissero ancora firmate come duo Lennon-McCartney, erano sempre più delle opere individuali, con quelle di Harrison tra l’altro in netta crescita, ma gerarchicamente oscurate dagli altri due autori, soprattutto per quanto riguardava la scelta dei singoli da lanciare (ci vorrà un pezzo come Something per guadagnarsi il lato A di un 45 giri). Era un po’ come se, senza il live, il cuore dei Fab Four non battesse più all’unisono. Per motivi occasionali, contingenti, di impegni da rispettare, però, un giorno di fine gennaio, quel cuore riprese a battere ancora, per una manciata di minuti, ridando un attimo di vita a tutti e quattro, che, canzone dopo canzone, cominciarono a sentirsi a proprio agio come un tempo. Forse fu solo l’illusione di una mezz’ora, ma entrò ugualmente nella storia.

Un vento freddo e pungente gelava Londra quel giorno di fine gennaio, ma il miracolo avvenne, quel cuore fermo e spento, da un po’ di anni, si decise di trapiantarlo su un tetto, provando a infondergli nuovi battiti, e il miracolo avvenne, per una volta ancora riprese a pulsare per alcune decine di minuti, regalando una delle tante prime volte dei Beatles, sebbene, in questo caso, fosse anche l’ultima. Quella nuova trovata segnò un’altra pagina nella storia della musica. Ma come e perché si ritroveranno sul tetto a suonare? E come mai saranno in cinque? Quali inconvenienti tecnici dovranno affrontare e di quale strumentazione e impianto si serviranno?

Ritorno al passato

Il progetto Get Back/Let It Be, avrebbe dovuto essere un film e un disco. Le immagini avrebbero dovuto documentare le sessioni in studio della band riprendendo tutti i momenti, anche quelli informali, di un “ritorno al passato”. Pensandoci bene anticiparono i tempi anche in fatto di docu-reality musicale, inteso nel senso più nobile. Ripartire dunque dalle origini, andare a rispescare canzoni addirittura del periodo tedesco, di Amburgo, degli anni formativi, quando le cover rhythm and blues e rock and roll la facevano da padrone. I tempi di realizzazione del lavoro dovevano coincidere esattamente con la durata di quel primo mese dell’anno, pertanto non andava sprecato neanche un giorno.

Il 2 gennaio del 1969 le telecamere si accendono e il progetto prende il via, c’era tempo fino al 31 dunque per mettere tutto su pellicola. Nonostante le difficoltà e i dissidi, pian piano cominciarono ad affiorare anche a momenti di ritrovata armonia durante le sessioni live negli studi, prima di Twickenam e poi al 3 di Savile Row, alla Apple.

Di tanto in tanto spuntava l’idea di concludere il film con un concerto, ma inizialmente non si dava tanto seguito a questa possibilità. L’ultimo live risaliva al 1966, quell’ultimo tour mise tutti e quattro d’accordo sull’abbandonare i palchi e quella vita infernale che oltre a non essere più sostenibile dal punto di vista umano, aveva anche abbassato di molto la qualità delle loro esibizioni. L’argomento dunque era molto delicato. Col tempo però si pensò a possibili soluzioni, come posti isolati in cui esibirsi, magari senza pubblico. Ci fu una proposta in particolare, da parte di Michael Lindsay-Hogg, chiamato a dirigere le riprese di questo progetto.

Hoegg aveva già una certa esperienza come regista di spettacoli, essendo già stato responsabile di Rock’n’ Roll Circus, il film-concerto dei Rolling Stones, in cui la band inglese aveva invitato ospiti internazionali a condividere il palco, tra cui lo stesso John Lennon, che mise su per l’occasione la super band The Dirty Mac con Keith Richard degli Stones al basso, Eric Clapton dei Cream alla chitarra e Mitch Mitchell, batterista della Experience di Jimi Hendrix. La pellicola uscì solo molti anni dopo per volere degli Stones che pare non avessero gradito che la performance live degli Who fosse stata nettamente superiore alla loro. Ma ritorniamo a Hoegg, che, per concludere il documentario propose un’esibizione in Nord Africa, nei pressi di un anfiteatro romano, con solo un migliaio di spettatori. Inizialmente sembrò una buona idea, tanto che addirittura si chiese e ottenne la disponibilità da parte di un generale americano, comandante delle forze aeree, con cui avevano collaborato per un evento di beneficenza, a trasportare tutte le attrezzature necessarie nel deserto. Fu però poi una secca battuta di Yoko Ono, a mettere tutti d’accordo e far naufragare questa possibilità, “Dopo le centomila persone dello Shea Stadium, tutto il resto è nulla”. Non convincevano neanche le altre possibilità: un mulino abbondonato sul Tamigi, o una nave bel lontana dalle coste, ancor meno location londinesi.

I fatti di quei primi giorni del 1969 rappresentano una fotografia abbastanza realistica degli umori della band in quella fase storica, fatti di alti e bassi. Sul lavoro sapevano tenere il ritmo e provarono a tener fede all’agenda concordata senza sprecare neanche un giorno, ma non fu impresa facile. Il 2 parte il progetto, con l’inizio delle riprese presso gli studi cinematografici londinesi di Twickenham; il 10, George, dopo il famoso litigio, abbandona tutti con un perentorio saluto: “Lascio il gruppo, ci vediamo in giro, in qualche locale”. Il 14 ancora nessuna traccia di George; lo studio viene smontato, anche perché poco accogliente e molto umido per trascorrerci così tante ore, oltre che poco adatto a creare quell’atmosfera di ritrovato benessere a cui si mirava. Il 15 la prima svolta, i quattro si incontrano e George pone condizioni chiare: abbandonare l’idea del concerto dal vivo e registrare alcune delle canzoni provate nei giorni precedenti per un nuovo album, nei nuovi studi Apple, allestiti all’interno dello scantinato del palazzo, al numero 3 di Savile Row. Accordo raggiunto. Nuovo inizio delle riprese fissato per il 20. Il loro storico produttore George Martin, da sempre prezioso collante soprattutto in fase di registrazione, questa volta non c’è, e lascia l’arduo compito di supervisionare a Glyn Johns.

Ma una nuova spinta propositiva arrivò inaspettata dal passato: proprio dal periodo tedesco sopraggiungeva un altro segno del “ritorno alle origini”. George Harrison in compagnia del suo amico Eric Clapton, (primo musicista a entrare su un disco dei Beatles con una chitarra solista in While My Guitar Gently Weeps, canzone di George del White Album) andò a un concerto di Ray Charles, ritrovandovi, dopo anni, Billy Preston in tour con Charles, conosciuto ad Amburgo quando era tastierista nel gruppo di Little Richard, con cui, i non ancora Fab Four, dividevano la serata. George colse l’occasione per invitare Preston alle loro jam e registrazioni in studio, approfittando della sua permanenza in città. Il 22 gennaio Preston è alla reception della Apple e chiede di George. L’energia positiva del tastierista “costringerà” gli altri a dare il meglio di se stessi in quei giorni. Sarà lui il quinto beatle sul tetto. Sebbene un po’ più defilato, potrà comunque vantare nel suo curriculum una cosa non da poco, soprattutto per gli analisti storici: aver suonato sia con i Beatles che con gli Stones.

Quelle settimane di gennaio, avevano visto la storica formazione correre per ben due volte il rischio di mutare la propria granitica line up: la prima quando, all’abbandono delle prove da parte di George, John propose, non si capisce fino a che punto seriamente, di sostituirlo con Eric Clapton, e la seconda, quando tutti, conquistati dal suono e dall’energia di Billy Preston, pensarono di prenderlo in pianta stabile. Idea poi accantonata sia per gli impegni già presi da Preston, sia per dei ripensamenti, pare soprattutto di Paul. Gennaio intanto va avanti e ci si avvicina alla fatidica data, ma senza ancora saperlo. Linsay Hogg è abbastanza certo che l’idea di suonare sul tetto divenne concreta solo qualche giorno prima, intorno al 25, quando con Paul e altri dello staff, si ritrovò a fumare una sigaretta e a prendere una boccata d’aria proprio sulla terrazza della casa discografica. Il 29 ci fu la conferma, ma non tutti ne sembravano ancora pienamente convinti, soprattutto George. Tuttavia si decise di tenere la notizia più segreta possibile.

Rooftop Concert

La giornata del 30 inizia molto presto e il concerto viene quasi subito messo a rischio, sin dalle quattro del mattino, quando la polizia ferma Dave Harries e Keith Slaughter per un controllo. I due tecnici trasportavano il materiale necessario, dagli studi di Abbey Road alla Apple, e responsabilizzati dal vincolo di segretezza sul concerto a sorpresa, non aprirono bocca, rischiando quasi l’arresto, che scamparono dopo una perquisizione del veicolo. A salvarli il logo della EMI sul furgone.

“In Kings Langley ci fermò la Polizia e non potemmo dir loro dove stavamo andando. Erano le quattro di mattina, portavamo ridicoli berretti e avevamo un sacco di corda con molta attrezzatura, sembravamo due che avevano appena svaligiato una banca.” Dave Harries

Per i tecnici del suono la mattinata fu interamente dedicata al trasporto e al montaggio in terrazza. Uno di loro, su quel tetto, era il non ancora noto Alan Parsons che, qualche anno prima, folgorato dall’ascolto di Revolver si propose agli studi di Abbey Road, facendo un rapidissimo salto di carriera da fattorino a ingegnere del suono, per poi lavorare ai dischi dei Pink Floyd e in seguito anche ai suoi. Fu proprio il giovane Parsons, quella mattina, a risolvere un problema non da poco. Il fruscìo del vento era un serio disturbo alle registrazioni, così si procurò dei collant, delle semplici calze, in un negozio nelle vicinanze, da infilare sui microfoni per ridurre e talvolta eliminare il fastidio.

“Quando ci rendemmo conto che avremmo avuto problemi con il rumore del vento, Glyn mi spedì in cerca di una soluzione. Così, girai l’angolo di Regent Street e presi un paio di calze. Mi chiesero che misura volevo e risposi che non importava. L’addetto del magazzino pensò che stessi per andare a svaligiare una banca o che fossi un travestito.” Alan Parsons

Per affrontare la parte tecnica è opportuno calarsi negli standard dell’epoca e comprendere che gli impianti audio rappresentavano qualcosa di molto distante da ciò che siamo abituati a intendere oggi. Nel giro di poco cambiò tutto ma non in tempo per quella mattina. Per capirci facciamo un salto al primo live di una rock band in uno stadio. E sempre a proposito di prime volte non può che trattarsi di loro. Siamo nell’agosto del 1965 allo Shea Stadium di New York. Ufficialmente si contavano 56.500 persone, ma erano certamente molte di più. Non c’era impianto audio, il suono viaggiava in filodiffusione lungo il perimetro del campo, vale a dire dagli altoparlanti da cui solitamente usciva la voce dello speaker delle partite che si svolgevano lì. La band suonava senza casse spia, più volte Ringo ha ribadito (e non solo in quel concerto) che, sovrastato dalle urla del pubblico, per capire a che punto della canzone si fosse, guardava il modo di battere i piedi degli altri tre davanti a lui. La Vox, in occasione dell’evento allo stadio, aveva costruito degli amplificatori di 100 watt, che però non cambiavano minimamente la situazione in uno spazio tanto vasto. Quindi, anche portando sulla terrazza tutto l’impianto della Apple, c’era bisogno di strumentazione di rinforzo da Abbey Road, poiché il suono dal tetto doveva pur sempre raggiungere il suolo. Oltre alla troupe audio c’era anche quella video, che posizionò un gran numero di telecamere, una dozzina pare, a partire dalla strada, fino alle terrazze limitrofe.

Cominciarono a comparire anche gli strumenti, a partire dal basso Hofner del 1963 di Paul con amplificatore Fender, John suonò una Epiphone Casino mentre George una Rosewood Telecaster Fender, entrambe con amplificatori Twin Reverb sempre Fender. La batteria di Ringo era una Ludwig Hollywood a cinque elementi con tre piatti. Billy Preston aveva a disposizione una tastiera Rhodes Twenty-three Fender. Per far arrivare il suono fino in strada, la colonna di altoparlanti dell’impianto di amplificazione (Solid Fender), fu inclinata verso il basso. I microfoni furono presi dallo studio stesso, ed erano dei Neumann KM84i. L’inizio era previsto per le 12.30, per una durata di 42 minuti, in modo da poter sfruttare la pausa pranzo di tutti quelli che lavoravano lì intorno. Nonostante fosse tutto pronto e la pausa pranzo stesse per scoccare, non era ancora certo si suonasse, non tutti i Beatles erano ancora convinti. La situazione era più o meno questa: Paul voleva farlo, Gerorge no, a Ringo andava bene qualsiasi cosa. A un certo punto John disse “Oh, cazzo, facciamolo e basta!” E salirono su. L’abbigliamento e l’atmosfera da questo punto in avanti sono impressi su pellicola e nella memoria.

La ricostruzione di Steve Matteo, nel suo essenziale libro sulla storia di Let It Be, ci riporta tutti su quel tetto:

“Paul sembrava deciso a farne uno spettacolo e per questo non aveva fretta di cominciare. John aveva un’espressione molto rilassata e felice. Guardava Paul mentre cantavano i cori e sorrideva in continuazione. Era come se gli piacesse proprio starsene lì sul palco con la sua Band; aveva un’aria quasi di dolcezza schiva, che nascondeva tutte le discussioni, il sangue cattivo, gli strani comportamenti che avevano segnato le settimane precedenti. Ringo era tutto d’un pezzo, un blocco di ghiaccio. George sembrava quello più a disagio, in disparte, cantava poco e si comportava come se fosse prigioniero di uno spettacolo idiota. Paul era in elegante abito nero con camicia sbottonata, incurante del freddo, George portava calzoni sportivi verdi, scarpe da tennis nere della Converse e, sopra la camicia, un giaccone di pelliccia nero. Ringo si era fatto prestare da sua moglie Maureen un impermeabile rosso, mentre John si era fatto dare una pelliccia da Yoko, che era perfetta abbinata alle scarpe da ginnastica bianche”.

L’apertura sulle note di Get Back riempie da subito l’atmosfera di magia; anche George rapito dalla bellezza di quei momenti cambia gradualmente la sua espressione aprendosi a qualche sorriso. Probabilmente Get Back e soprattutto Don’t Let Me Down (un altro urlo di dolore di John, della profondità di Help!), restano i momenti che tutti ricordano. Il live si snodò in brani ben suonati, spaziando dal rock and roll delle origini fino alle nuove inedite composizioni, e a dirla tutta, sembravano davvero in forma, tanto da dare un assaggio di quale potrebbe essere stata la loro nuova vita live in quegli anni. L’atmosfera è sempre più coinvolgente, per quelli che saranno gli ultimi minuti di concerto della storia della band di Liverpool. La gente si accorge che qualcosa sta avvenendo su quel tetto, e per strada, alle finestre e sui balconi, il pubblico aumenta sempre più, prima composto da passanti occasionali, poi da tanti altri grazie a un inarrestabile passa parola, all’annuncio, stupito e sussurrato a mezza bocca, “Sono i Beatles!”. Alcuni abitanti del vicinato avviseranno la Polizia che, alla fine, anche se non in modo brusco, interromperà il concerto poco prima della fine, ma dopo che quel live fosse ormai già consegnato alla storia.

Suonarono molti dei pezzi che costituiranno l’ossatura dell’album Let It Be, ultima uscita in vinile della band, posticipata però di qualche anno, per dare spazio a quello che sarà l’ultimo disco in studio. Si perché nonostante sembrava essere giunti al punto in cui ogni cosa pareva volgere al termine, è ancora da scrivere il capitolo Abbey Road. Molto di quel materiale registrato da Glyn Johns, finirà nell’album Let It Be, “manomesso” in produzione da Phil Spector, che soprattutto per il lavoro fatto su The Long and Winding Road, porterà ad aspri scontri tra Paul, che ne era l’autore, e gli altri tre. Ma intanto c’era da congedarsi per sempre dalla storia dei live. Da quel tetto, sospesi tra cielo e terra, sarà la voce di John a farlo, a modo suo, avvicinandosi al microfono un’ultima volta, per chiedere a tutti se i Beatles avessero superato il provino: “Vorrei ringraziare tutti anche a nome del gruppo, spero che abbiamo superato il provino”.


Tracklist Rooftop Concert
Get Back
I Want You (She’s So Heavy) – Jam
Get Back
Don’t Let Me Down
I’ve Got a Feeling
One After 909 (With “Danny Boy” tease)
Dig a Pony – (with a false start)
God Save the Queen – (traditional cover) (Jam)
I’ve Got a Feeling – (with “A Pretty Girl Is Like a Melody” tease)
Get Back
Don’t Let Me Down
Get Back (Cut short by police)