In questa mescola mondiale ci sono anche nuovi inizi, ed è proprio qui che si colloca Ko de mondo, il primo disco dei CSI, che Donato Zoppo ha splendidamente riscostruito nel suo libro appena uscito per Compagnia Editoriale Aliberti, “CSI – È stato un tempo il mondo” che grazie anche all’intervento degli stessi protagonisti è davvero diventato un “resoconto collettivo a più voci del Consorzio Suonatori Indipendenti” come recita il sotto titolo. Questa chiacchierata con l’autore ci permette di entrare a curiosare tra le righe di un racconto che a tutti farà bene leggere, perché quel pezzetto di storia narrato, è anche una bussola per orientarsi nella musica rock italiana degli anni Novanta e non solo.
La prima migrazione da Firenze, dai Litifiba, verso i CCCP avviene già in occasione dell’ultimo disco Epica Etica Etnica Pathos, per certi versi frutto dell’incontro nel viaggio condiviso per i loro concerti in comune in Russia. Però poi tutto resta fermo per tre anni, non c’è niente di automatico tra questa prima collaborazione e la nascita della nuova band, se non una stima reciproca e dei progetti fondamentali per il nuovo rock italiano giunti a passaggi decisivi, fine per i CCCP, importanti cambi di formazione per i Litfiba. Perché è stato importante quell’ultimo disco dei CCCP, per molti versi differente dai precedenti? Dopo quei tre anni prende poi forma una grande voglia di cominciare da zero una nuova storia…
Il libro su Ko de mondo si dipana seguendo vari fili conduttori. Uno di questi riguarda il rapporto tra continuità e discontinuità, tra identità e differenze, tra ciò che c’era prima e ciò che è arrivato dopo. Una delle domande più frequenti riguarda proprio le differenze tra CCCP e CSI: per alcuni sono due gruppi in relazione di stretta continuità, per altri due esperienze completamente diverse, per qualcuno un supergruppo un po’ come ne nascevano negli anni ’70 e ‘80. Io preferisco mettermi al centro, salomonicamente, e penso che sia meglio porre la domanda diversamente: quanto c’è dei CCCP nei CSI? Qual è il tasso di Litfiba nei CSI? Allora le cose cambiano e comprendiamo che la loro unicità è nella qualità e nell’intensità del contributo da parte degli ex CCCP e degli ex Litfiba, fermo restando che si tratta di una creatura unica nel suo genere. Talmente unica da trovare diversi punti di partenza, varie tappe costitutive, con la prima al di fuori, prima della sua storia dunque nella preistoria, in un disco anomalo quanto straordinario quale Epica Etica Etnica Pathos.
È un album che ha tantissimo da raccontare, basta citare già solo la copertina e le foto di Luigi Ghirri, al cui lavoro grafico di recente Giulia Cavaliere ha dedicato uno splendido pezzo nello speciale CCCP di «Linus». È un disco che anticipa il percorso dei CSI per due motivi: il primo riguarda il luogo, una villa in campagna abbandonata destinata a studio di incisione, il secondo la modalità, ossia la composizione e la registrazione libere, un flusso senza schematismi e produzioni costrittive com’era accaduto in Canzoni preghiere danze del II millennio e in modo differente anche in Litfiba 3. Ne viene fuori un doppio Lp ricco di musica, a mio avviso il più generoso e creativo nella storia dei CCCP, ma al tempo stesso è un’opera connessa alla vicenda dei Litfiba, dai quali provengono Maroccolo, Ringo De Palma, Magnelli e indirettamente Canali che della band era il fonico dal vivo. Credo racchiuda la fine di un’epoca e l’inizio di un periodo nuovo (come poi accadrà tre anni dopo con Ko de mondo), restando però un episodio a sé stante, infatti decreterà anche la fine dei CCCP.
La scossa tellurica del punk, nella seconda metà degli anni Settanta, genera a livello internazionale una sorta di nuovo mondo musicale, che sovverte regole e parametri, aspettative e obiettivi. A Berlino come a Firenze. I CCCP sono radicati in Emilia ma prendono forma in Germania, i Litfiba in un seminterrato di Via de’ Bardi, vicino l’Arno. In comune hanno anche frequentazioni teatrali: i CCCP portandone direttamente dei pezzi sul palco, i fiorentini lavorando inizialmente a colonne sonore teatrali come la loro prima uscita in ep Eneide. Resta l’idea di una forte sperimentazione e una strada tutta da costruire, loro a differenza di altri si trovano anche nelle città giuste e nel momento giusto?
La storia del rock ci insegna che c’è sempre stata una formidabile coincidenza tra tempi e luoghi, tra desideri artistici, urgenze espressive e protagonisti. Le famose “scene” nascono e si formano proprio quando coincidono persone, luoghi e tempi, da San Francisco a Liverpool, da Berlino a Londra. In questi contesti cittadini ci sono ovviamente artisti più sensibili e “allertati” (per citare Julian Cope), che annusano prima degli altri le novità all’orizzonte, così riescono a vivere i loro luoghi come autentici ambienti espressivi: l’Emilia dei CCCP e la Firenze dei Litfiba ne sono un esempio. Con due differenze evidenti che però resero quei percorsi complementari: per i CCCP Reggio Emilia era la periferia dell’impero, la provincia più rossa in quell’asse tra il reale e l’immaginario che era Carpi-Berlino-Mosca; i Litfiba invece, pur guardando alla musica inglese e restituendola in una chiave unica nel suo genere, visionaria, misterica e mediterranea, erano tutt’uno con la Firenze del Rinascimento rock descritta da Tondelli nel Weekend postmoderno, vissuta e raccontata da Bruno Casini che del gruppo fu anche primo manager. Due volti dei nostri anni ’80, due tragitti paralleli che poi si fonderanno nei CSI creando qualcosa che sarà molto diverso dalla somma delle singole parti.
Come dicevamo intanto il mondo cambia, abbattuto il muro che divide l’Europa, crollata l’Unione Sovietica, i CCCP sentono anche la loro fine naturale. In quei tre anni sembra che anche loro siano in ridefinizione, personale e artistica proprio come le cartine geografiche dell’Europa balcanica e asiatica. Tu racconti anche la nascita del Consorzio Produttori Indipendenti e la quasi casualità del nome CSI, mentre in questo tempo di quieto fermento alcuni di loro fanno da chioccia e producono molte band che saranno importanti anche per la nuova scena rock alternative in Italia.
Mentre all’indomani di Litfiba 3 ci sarà l’esperienza prima di Pirata e poi di El Diablo con cui finiranno per sempre gli anni ’80 darkwave di Pelù e Renzulli, il 1990 segna la fine dei CCCP e il ritiro di Ferretti e Zamboni. L’ala fiorentina che aveva partecipato a Epica auspicava un tour e una continuità che invece gli emiliani non desideravano, anche se pian piano per Giovanni e Massimo riemerse il desiderio di musica. Musica non ancora ideata, composta e suonata personalmente ma solo prodotta, quasi volessero starne a distanza senza riuscirci del tutto: nacque infatti l’esperienza discografica dei Dischi Del Mulo, con l’uscita dei primi dischi di Üstmamò (il debutto omonimo esce nell’ottobre del 1991) e Disciplinatha (l’EP Crisi di valori esce a dicembre). La cosa a mio avviso più interessante fu che attraverso questi album si poteva percepire comunque la presenza dei CCCP, negli Üstmamò era territoriale/geografica, nei Disciplinatha era legata all’aspetto politico/situazionista, diametralmente opposto nei contenuti a quello dei CCCP ma proprio per questo speculare. Il rock alternativo dei nostri anni ’90 dovrà molto alla formula di questi due gruppi (per quanto mi riguarda molto più interessanti nella loro anomalia crossover i Disciplinatha), ai quali seguiranno poi altre produzioni come i Wolfango e gli Acid Folk Alleanza.
Vengono fuori le propensioni come produttori di Maroccolo, Magnelli, Canali. Questo aspetto probabilmente sarà decisivo anche nel viaggio alla fine del mondo, in Bretagna a Finis Terrae, che darà la luce all’esordio dei CSI?
La forza dei CSI è stata da sempre l’unione di personalità diverse, non solo per carattere e temperamento ma anche per professionalità, esperienze pregresse, formazione musicale e ruolo. Sia Ferretti che Zamboni, nelle varie interviste che ho realizzato, hanno sottolineato che i fiorentini erano i musicisti e che con loro fece prepotentemente ingresso la musica, che nei CCCP era solo una parte della proposta visuale/teatrale/comunicativa. Ko de mondo non sarebbe mai nato senza la determinazione di Maroccolo, che era anche uomo di relazioni (l’incontro con il discografico Stefano Senardi è merito suo) e di questioni tecniche e produttive sin dai tempi dei Litfiba. Magnelli era un arrangiatore sopraffino nei Litfiba, era molto coinvolto nel trio Beau Geste con Maroccolo e Aiazzi, era l’altro uomo di musica della situazione, sia dal punto di vista creativo che produttivo. Canali era molto più istintivo, immediato, ma proprio per questo il suo apporto così lontano da Zamboni e così spigoloso si rivelò determinante per la tenuta dell’equilibrio. Non credo che qualcuno abbia dato più di altri, ci sono state diverse gradazioni di intensità nei contributi di ognuno a seconda del ruolo, dello strumento, del desiderio di musica, come accade nei grandi gruppi d’altronde.
Una major, il produttore Senardi in particolare, accetta a scatola chiusa di produrre un disco senza aver ascoltato niente prima, si fida delle persone (e delle personalità) che ha di fronte. Prendono casa in Bretagna e lì inventano in un mese, da agosto a settembre del ’93, testi e musiche, ed ecco Ko de mondo, non un disco qualsiasi…Cosa ha funzionato? Lo “stato di grazia” di cui parla Ferretti quando si ritrovano a registrare?
Ha funzionato in primo luogo la grande intuizione di Maroccolo e Magnelli, ovvero di riconnettersi al contesto e all’atmosfera di Villa Pirondini, nella quale nacque Epica Etica Etnica Pathos. Lì molto semplicemente si crearono le condizioni per un lavoro creativo libero, che aveva una caratteristica: le differenze di carattere e indole, che spesso portavano a dei contrasti, venivano tradotte in scontro creativo, suonando si stemperava tutto e tutto si incastrava alla perfezione. Credo che l’approccio di Maroccolo e Magnelli, ossia quello di creare una musica ipnotica che puntasse tutto sul pathos e sull’emotività, fosse la dimensione migliore per coinvolgere sia Zamboni, che aveva un approccio più meditativo e razionale, che Ferretti il quale si lasciava ispirare dai volumi e dall’intensità per le sue riflessioni e il racconto di sé. Ko de mondo dunque prese spunto dalla modalità creativa e produttiva del 1990, ebbe la parte ritmica di Pino Gulli e Alessandro Gerbi che furono una scelta davvero azzeccata per potenza ed espressività, e ovviamente prese moltissimo dai luoghi bretoni in cui nacque. Ovviamente Senardi non poteva sapere tutto ciò perché gli stessi musicisti erano ignari di quello che sarebbe successo, ma intuì lo stato di grazia e approvò tutto letteralmente a scatola chiusa.
Ferretti racconta del suo modo differente di stare e di cantare nei CSI. Nel punk filosovietico dei CCCP il testo è urlato, estratto quasi a forza dalla realtà e risputato fuori sul palco e nei dischi, invece nei CSI, è presente un cantato a bassa voce, sussurrato quasi, che induce al racconto, a una maggiore intimità, si lascia spazio al narrare maggiormente di sè, ma sempre nel contesto del mondo in trasformazione. Questo credo possa essere uno dei motivi per cui cambierà anche il modo di stare sul palco, per proporre quella musica. Già da alcune immagini dell’epoca si percepisce una disposizione che poi prenderà forma sul palco, da band solida e consapevole seppur ancora in definizione…
Giovanni nel 1993 ha 40 anni, li festeggia proprio al Prajou. Ha alle spalle oltre un decennio di musica diversa e sente che con i CSI può sperimentare nuove modalità, sia in studio che sul palco. Il tour di Ko de mondo, che tutti ricordano per la maestosità del suono e la potenza del volume, fu la prima prova di un nuovo modo di vivere il palco, non più all’insegna del cabaret-punk filosovietico ma in una circolarità vorticosa di suoni creata da una band vera, solida, nella quale ognuno aveva una posizione precisa. A questo va aggiunto che il Ferretti del 1993, dopo il ritiro del 1990 ma ancora prima il ritorno a Cerreto, è ancora di più un uomo di cultura che si pone delle domande e che legge in maniera vorace: tutte le sue letture e i suoi interrogativi, il suo modo arcaico di vedere il mondo in conflitto oramai con la modernità che si era inventato, la sua religiosità che spinge per trovare una ridefinizione, non possono non tradursi in parola scritta. L’elemento magico è che quei testi, scritti in riva al mare bretone o passeggiando all’alba nella brughiera, calzavano perfettamente sulla musica. Ko de mondo è il frutto di una simbiosi, di un sentire comune, davvero rari.
Siamo finalmente ai brani. Prendono forma canzoni decisive che poi diventeranno di tutti come Del Mondo, A Tratti, In Viaggio, Fuochi nella Notte, insomma si potrebbe citare tutta la tracklist…Nel libro ci racconti esattamente nascono. Qual è la tua idea di quei brani, del disco intero, sia in quel momento, come valore assoluto, che in seguito, come passaggio storico di certo rock italiano?
Col tempo mi sono fatto un’idea, ovvero che i CSI hanno pubblicato un unico, solo, grande disco, con cinque facce. Tipo un pentaedro magico sonoro. La faccia bianca luminosa e ruggente di Ko de mondo, quella in filigrana acustica romantica di In quiete, quella austera e densa di Linea gotica, quella del groove mistico travolgente di Tabula Rasa Elettrificata, infine quella drammaticamente resistente e emotiva di La terra, la guerra, una questione privata. Se ci pensi bene accade tutto nel giro di quattro/cinque anni, un periodo lunghissimo ma anche breve, stando alle dinamiche a sé della storia del rock. Detto questo, e aggiunto anche che Ko de mondo è il mio preferito dei CSI (anche se è poco rilevante…), ritengo sia un disco importante, sia per l’esito artistico che per la sua posizione nella storia del rock italiano degli ultimi trent’anni. Credo che il dato più significativo stia nella sua inafferrabilità. Se guardiamo alla storia del rock tricolore, vediamo che i principali protagonisti hanno dei riferimenti precisi: i Beatles per l’Equipe 84, i King Crimson per la PFM, il punk storico per i CCCP, la new wave storica per i Litfiba, l’alt-rock storico per gli Afterhours. Ko de mondo invece è una vicenda a sé, con un sound impossibile da etichettare e definire. Ogni tanto mi sono chiesto se con i testi in inglese avrebbe avuto qualche chance all’estero…
Ko de Mondo non si rivelerà un episodio isolato, per alcuni anni i CSI faranno dischi memorabili e segneranno ancora di più gli anni Novanta. Che peso hanno avuto i loro dischi sul rock italiano di quel periodo? Per certi versi sono stati una band dal percorso abbastanza unico per testi musica e impatto live.
Sì, come dicevamo prima una chiave di lettura sta proprio nell’unicità, che è dovuta al fatto che si è trattato di musicisti di lungo corso, di grande esperienza, sicuri di sé e consapevoli delle proprie differenze. A differenza di CCCP e Litfiba, i CSI non hanno vissuto la giovinezza insieme forgiando il sound in cantina, facendo la gavetta nei baretti e bussando a tutte le etichette per fare un primo disco: avevano alle spalle una grande storia e pur inventando ogni disco da zero, senza schemi precisi e senza certezze, hanno attinto al proprio bagaglio di conoscenze e sensibilità. Credo che sia stata importante anche la grande prolificità di Gianni Maroccolo, che all’epoca ha lavorato tantissimo anche con CPI e Sonica, creando una rete di relazioni e intrecci che poi è tradotta in chiave creativa. Aggiungo che nel 1994 i CSI vengono invitati al Premio Tenco, un dettaglio assolutamente non trascurabile, non soltanto sul versante della canzone d’autore italiana che si stava finalmente aprendo ad altri linguaggi, ma anche per il gruppo, che aveva una figura di cantante/autore unica nel suo genere. Credo che abbia contato molto, nella peculiarità dei testi di Giovanni, il suo passato punk: la logica DIY, lo spirito fai da te del Do It Yourself, lo ha spronato a cercare fortemente la propria poetica, il proprio linguaggio, il proprio microcosmo di sfumature lessicali e anche visive. La sua scrittura infatti procede per immagini, sia nell’accumulo che nell’evaporazione delle stesse. E vive in profonda simbiosi con la musica, come dimostra la genesi di A tratti, non a caso posta in apertura dell’album, a mo’ di pezzo manifesto.
Nel libro ovviamente ci sono molte cose che non sveleremo qui. Intanto volevo farti i complimenti per questa ricerca, per la bellezza della scrittura che mi ha colpito molto, e ti chiedo, come è stato incontrare tutti i protagonisti di questa storia ? E come ti è sembrato che pensino a quei momenti a distanza di anni?
Così come ognuno di loro ha dato un contributo diverso al disco, così anche i loro ricordi sono differenti. Intanto mi viene da pensare che l’elemento comune è ancora oggi, in tutti, lo stupore per aver creato un disco così bello dal nulla, e in un contesto collettivo così eterogeneo. Ognuno di loro ha uno sguardo e una memoria propri, da Ferretti che mi ha trasmesso una grande gioia nel ricordare l’estate del 1993 (ed era la prima volta che lo faceva dopo tanti anni) a Maroccolo che invece ha comunicato il rimpianto per non aver potuto proseguire quell’avventura così creativa; Zamboni ha dato una lettura molto lucida – non fredda né cerebrale – secondo la quale la complessità del gruppo e le diverse individualità scioglievano i conflitti nella musica, Canali senza nostalgia e senza romanticismo ha ricordato la potenza di una musica che univa anche elementi di scontro e di spinte centripete senza per questo perdere di vista l’esito finale, Magnelli è entrato nei nessi e nei giunti della composizione sottolineando le modalità di costruzione dei pezzi. I tre più giovani, ossia Ginevra, Pino Gulli e Alessandro Gerbi, conservano ancora intatto lo stupore per aver assistito, interni ma al tempo stesso osservatori esterni, allo stato di grazia in atto.
Dopo tante pubblicazioni sul prog, su Battisti e molto altro, come è stato per te, nelle vesti di ricercatore, di giornalista musicale, tuffarti a capo fitto in questa storia? Tra l’altro proprio mentre Ferretti e Zamboni celebrano l’altra loro creatura, i CCCP, con mostre e concerti in Germania e Italia ?
Questa idea del libro su Ko de mondo nasce da molto lontano, idealmente dagli anni ’90, quando ebbi la fortuna di scoprire il disco in tempo reale e di adorarlo per la ricchezza e la profondità; concretamente nasce dai primi contatti con Massimo Zamboni alla fine del 2012. Poi misi il progetto nel cassetto e mi dedicai ad altro, fino all’estate dello scorso anno, quando un incontro piombinese con Gianni e poi uno in Irpinia con Francesco e Ginevra mi ha fatto tornare la voglia di riprovare. La reunion dei CCCP me la sono ritrovata addosso, ma credo sia stata utile perché avendo rimesso in moto un po’ di dinamiche positive ha scosso Giovanni dalla sua ritrosia al concedersi, tant’è vero che i contatti con lui, sia fisici che telefonici, sono stati possibili per questo (e anche perchè abbiamo lo stesso editore, Aliberti).
Donato grazie per questa chiacchierata e sinceramente spero che continuerai a raccontarci altri capitoli della storia di questa band…
Sarebbe molto bello, non escludo di farlo in futuro, prima però devo terminare il mio nuovo libro, stavolta completamente diverso: sarà la biografia di una delle più grandi, carismatiche e potenti band della storia del rock…