Una delle sere in cui mi ero detta “scrivo”, per poi non scrivere davvero, ho iniziato a leggere Album di Famiglia di Alaíde Ventura Medina, autrice messicana recentemente pubblicata da Polidoro Editore. Nel romanzo, di cui probabilmente parlerò meglio in un altro momento, il fratello della protagonista smette a un certo punto di parlare. Mentre scrivo non ho ancora terminato la lettura, ma non viene data una spiegazione esplicita, anche se è inevitabile pensare che la sua sia la risposta alle violenze del padre, che picchia e offende lui e la madre.
La protagonista ci dice: “Soltanto chi ha vissuto con una persona silenziosa può capire in che modo il silenzio riempie gli spazi, se ne appropria”, e ancora: “Anche il silenzio è un messaggio. Non parlare è parlare.”
Per certi versi, questo ha risuonato molto con il libro di cui voglio parlare qui, che il richiamo all’assenza di parola ce l’ha fin dal titolo. Ne Il periodo del silenzio di Francesca Manfredi (La Nave di Teseo), seconda prova lunga dell’autrice, la ventottenne Cristina Martino decide infatti da un giorno all’altro di eliminare i suoi profili social. Il suo non è però un social detox temporaneo per tamponare questa forma di dipendenza tutta contemporanea. Quante volte abbiamo tolto l’app di Facebook, Instagram, negli ultimi anni TikTok, dicendoci che avrebbe fatto bene alla nostra concentrazione, ci avrebbe permesso di dedicarci alle cose davvero importanti, per poi riapparire dopo qualche giorno – o settimana per i più tenaci – come se nulla fosse? Io stessa non sono entrata su X/Twitter per mesi e ho diradato sostanzialmente i miei accessi Facebook per impedirmi di ripetere dinamiche di condivisione che diventano più bisogno di essere vista.
Quello di Cristina non è un gesto impulsivo o risolutivo in sé per sé, è anzi il primo step di un percorso verso l’assenza di comunicazione, il silenzio totale. Il periodo del silenzio è raccontato, a eccezione della breve parte finale, dalla voce di Cristina che in prima persona elabora e racconta la sua scelta. Dice: “L’inizio del silenzio fu anzitutto un piano elaborato. Non è qualcosa che si improvvisa, così come non si improvvisa una fuga o un atto di distruzione.”
Se il fratello di Album di Famiglia reagisce con il silenzio a dei traumi fragorosi come schiaffoni, il piano verso una vita silenziosa di Cristina sembra più freddo, meno leggibile. Cristina ha una vita purtroppo piuttosto comune. Laureata in Antropologia, ha un contratto precario come bibliotecaria di un dipartimento dell’Università di Torino. Con lo stipendio che prende riesce giusto a pagare l’affitto di un bilocale minuscolo e a concedersi poco altro.
Secondogenita di due, è inevitabilmente quella con la vita meno riuscita, rispetto a una sorella che ha casa, famiglia e un lavoro stabile in banca. Come detto da Manfredi durante una videointervista, a spingere Cristina verso il silenzio non è un trauma, ma probabilmente “una serie di fratture” .
In una società che spinge all’affermazione e giudica chi non riesce, Cristina decide quindi di sottrarsi. Prima come presenza social, e poi dalla parola. Si ascolta lei stessa per l’ultima volta, prima di sospendere il suono. Accampa una malattia alla gola al lavoro per giustificare il primo periodo di silenzio; prova a spiegarsi alla famiglia e alla migliore amica, costretti a confrontarsi con situazioni di scambio unilaterale. Anche Daniele, la sua ultima relazione/frequentazione, viene notificato di questa scelta e inizia con lei una serie di appuntamenti settimanali fatti di film, sesso e silenzio.
Interrompere le comunicazioni con gli altri, sfilacciando quindi anche i rapporti, pone Cristina di fronte alla sorpresa e allo sgomento altrui, ma anche nella posizione di riappropriarsi del suo tempo, del sentirlo dilatato e meno sfuggente. Cristina assume, negandosi agli altri, quasi una posizione di potere che porta alcuni ad allontanarsi e altri a subirne il fascino.
La prima persona porta alla costruzione di un romanzo dal tratto fortemente esistenzialista. Cristina non comunica con gli altri, ma comunica tantissimo con sé stessa. Il lettore ne segue le scelte ferme, ma anche i tentennamenti e i conflitti. Con la bravura dell’autrice di far immergere nei pensieri di Cristina, nelle sue risoluzioni quasi apatiche, ma anche nei momenti di crisi di astinenza da celare a occhi esterni.
Il silenzio diventa per Cristina una relazione totalizzante, di devozione. Nei momenti umani di mancanza di contatto con altre persone, Cristina si dice e ripete: “Gli avrei detto che non era lui ma ero io, e non ero neppure io, era il silenzio. Gli avrei detto che fra lui e il silenzio avrei sempre scelto il secondo, che avrei preferito il silenzio a tutto, perché era lo zucchero di una medicina altrimenti imbevibile, una medicina salvavita, e più mi allontanavo da ogni cosa più riuscivo ad apprezzarla.”
Nel romanzo non mancano poi occasioni di confronto con altre persone silenziose. Su consiglio della sorella, Cristina inizia a frequentare un gruppo di auto-aiuto composto da persone più o meno giovani, affette da mutismo selettivo o ormai disabituate a comunicare dopo aver vissuto per anni come hikikomori. La protagonista è incuriosita da ciò che avviene nel gruppo, dalle strade che hanno portato altri al silenzio e dagli strumenti che una “guarita” mette in atto per sollecitare anche loro a ritornare alla parola. Per Cristina però il silenzio è ancora una volta una relazione duratura, a cui essere fedele. E anche altri iniziano a crederle.
Manfredi passa quindi da un primo romanzo, L’impero della polvere, fatto di materia sporca ed elementi gotici in una natura più aperta, a un’opera più simbolica e legata alla realtà e a questo tempo che viviamo, pieno di notifiche e parole superflue. E lo fa mantenendo una tensione priva di retorica nello spazio stretto di una mente umana che ha deciso di tacere.