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Maradona, il figlio magico dell’Argentina

Una volta avevo una zia formidabile con il congelatore sempre pieno di gelati Algida. Bisogna capire che negli anni Ottanta, quando ero una bambina, questo fatto rientrava in una precisa strategia di corruzione, ovvero tu vieni a trovarmi e io ti aspetto con tutto il mio congelatore Algida. Questa mia zia – e l’ho capito molto dopo – pur essendone ignara, aveva un che di ribelle, era un po’ Emily Dickinson dei gelati e dei programmi tv. Va da sé dovesse sentirsi abbastanza sola, ma io queste cose ancora non potevo capirle. Di fatto, due sono le cose che mi sono rimaste, incancellabili, dopo la sua morte. Il congelatore sempre pieno di gelati e il boato in dolby surround, sulla sua veranda, ogni volta che il Napoli giocava in casa.

Fuorigrotta è il quartiere dove sono nata e cresciuta ed è un quartiere periferico ma in un modo che rasenta la provincia, più che la periferia. Il fatto è che il napoletano medio non ignorantissimo vanta una discendenza crociana direttamente proporzionale alla distanza dal centro storico, dove tante belle idee germinarono. Sarà Jung, vai a sapere.

Così, per questa legge non scritta che lega Benedetto Croce, Carl Jung e la distanza da piazza San Domenico Maggiore, Fuorigrotta resta mediamente ignorante e tronfia oltre il consentito. Ma. C’è un importante ma. Fuorigrotta vanta anche un nucleo con nostalgie aerospaziali notevolissimo. La Mostra d’Oltremare razionalista dal tempo in cui “c’era lui” si è arricchita di sempre nuove strutture dal sapore: nostalgia del deep space. Mettici pure la Facoltà di Ingegneria, mettici le vecchie montagne russe dell’Edenlandia che rischiavano di mandarti al creatore a ogni giro, insomma aleggia una chiara connessione con l’Universo che i fuorigrottesi ignorano giusto perché sono una popolazione di discreti tamarri, come si diceva.

Ma l’anello di congiunzione assoluto tra il quartiere in cui nacqui e l’Universo resta la Grande Astronave, lo stadio San Paolo. Se la teoria delle stringhe resta non verificabile, è tuttavia insindacabile la vibrazione emanante dalla Grande Astronava in caso di partite di un certo rilievo: affettivo, opportunistico, morale. Sono moltissimi i valori in gioco sul campo verde brillante che dimostra in maniera lampante l’esistenza di Dio. Un Dio che progetta le gradinate e distribuisce la tifoseria.

 

 

A quei tempi io ero una ragazzina, che giocava alle Barbie, sbuffava agli stadi. Trascinata di peso dalla mia famiglia, finii per vedere giocare D10s. Se avessi potuto scegliere tra le Barbie e lo stadio, tra le Barbie e lo stadio avrei scelto le Baaaaaarbie. (Fine cit.).

Era il 29 aprile 1990. Gli azzurri vinsero al San Paolo contro la Lazio per 1-0 con gol di Baroni conquistando il secondo tricolore a distanza di tre stagioni dal primo. Io mi lamentai per tutto il tempo della partita, perché qualcuno intorno a me fumava e sì, ero una bambina molto gioiosa e simpatica, ma se infastidita sapevo essere scassacazzi in maniera feroce.

Maradona era una presenza in quegli anni a Napoli, era nell’aria come il caffè e la sfogliatella: lo Zeitgeist del riscatto, con Pino Daniele, Massimo Troisi, una Napoli creativa (come sempre), e prolifica (come mai). Era nei cori O mamma mamma mamma sai perché innamorato son. Perché aveva prodotto una cosa grande, nei vicoli e nei cuori: eravamo sempre i negri, quelli sfottuti dal Nord, quelli colerosi e terremotati. Ma c’era questo più negro di noi che saettava da dentro a un Sogno e a velocità supersonica bruciava primati e soddisfazioni, ci avvolgeva in una bandiera azzurra transnapoletana e infine planetaria e, tanto per tornare alle origini, universale. E quindi quale migliore e più incredibile occasione. E nemmeno stare a chiedersi perché: chi si chiede il perché quando è felice?

 

Diego Armando Maradona è stato lo sperpero di un daimon bruciantissimo nel corpo di un mortale, una stella ragazzi, da piangerci. Ha sputato addosso ai potenti, con un’arma in più dello sdegno: con il genio! Sono così i Supereroi e anche i semidèi, resta sempre una kriptonite un tallone, un dettaglio dove si annida la sconfitta che lascerà spazio ai piccoli, a quelli che si fregeranno della retorica dei nonostante. Oggi che Diego è morto sono tantissimi a dirci quello che è stato, nonostante i suoi grandi errori. Se ricordate il giovane Holden, sono come quelli che confondevano il talento della scrittura con la capacità di essere descrittivi. Patetici.

La Grande Astronave ha tutte le luci accese stasera, e sarà intitolata, promette il sindaco, al dio. Per lo più la gente tace, sta ancora cercando realizzare la notizia o piange riguardandosi i più bei gol, le prodezze e le meraviglie, le furfanterie di un picaro generoso. La sensazione è di una piccola morte reboante dentro, qualcosa di silenzioso e immenso che dilaga, come tristezza dai freni della nostalgia. Un chiederci quale revisione potrà garantirci che dopo la sua scomparsa quegli anni resteranno intatti, sospettando come un buco nero si sia tirato dietro tutti i nostri ricordi.

Io ci ho messo tempo – ci metto sempre tempo – a passare dai gelati della zia al boato di fronte casa sua, dal fastidio per quelli che fumano alla partecipazione a un rito pagano, dall’Io al Noi tutti: ma in fondo la vita è questo passaggio. Chi oggi piange Maradona piange il Sogno, un Noi prima soltanto vagheggiato e realizzato poi in questo alieno, in questo figlio magico e fragile che abbiamo seguito col cuore in gola, sperando non ci desse mai questo dolore. Pregando che nonostante il tormento divorante restasse, facesse ancora un miracolo.