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Seattle, alle origini del grunge

“Quando il mondo cominciò a parlare di Seattle era già tutto finito.” Greg Gilmore

C’è stato un tempo in cui Seattle era solo uno dei lembi periferici delle stato di Washington, una città sempre intenta a salire le scale del trampolino che avrebbe potuto lanciarla nel novero delle metropoli di serie A, ma sempre accecata e bloccata dalle vertigini prima del salto. Eppure c’è stato un decennio in cui dal suo ventre ha lanciato vagiti così forti da scuotere l’intero pianeta. L’ha fatto con la musica, con il rock, e la sua scena cittadina è stata forse l’ultima a scuotere e a fendere con una certa forza la storia della musica, lasciandoci quel rumoroso affresco chiamato grunge.

Ma Seattle sembra non avere un prima e un dopo, per le sue strade non ci sono i segni di quel passato graffiato da chitarre e scosso da bassi e batterie. Non è New Orleans o Chicago, dove l’odore del blues e del jazz è rimasto attaccato alle strade e alle storie che ancora si raccontano, e non è neanche San Francisco o Londra, dove la leggenda psichedelica o quella rock, ha il volto disegnato nella memoria collettiva di icone che hanno incarnato il Novecento musicale. Seattle ha resistito alle battaglie, ha spento incendi che ne hanno devastato la fisionomia, nascondendo la miseria tossica che ne è derivata, all’ombra del vetro e del metallo di grattacieli, che nel tendere al cielo oscuravano troppo il sole agli occhi di una popolazione che annaspava in una storia diversa.

C’è stato anche un tempo, certamente breve, in cui quella città è stata lucente come la schiuma bianca sulla cresta di un’onda baciata dal sole, che prima di perdersi e svanire nella risacca del mare, regala vibrazioni emotive che permettono di custodirne il ricordo. Ma l’onda, prima si crea, prende forma, grazie a spinte sotterranee, venti, mulinelli e correnti che le danno forza e corpo. Arriva da lontano insomma. Ed è quella fase montante che spesso ne determina l’intensità, la direzione e il destino. È quella la storia che vogliamo conoscere meglio e provare a raccontare. E allora proviamo a comprendere alcune cose di quel decennio che spezza a metà gli Ottanta e i Novanta, con i suoi luoghi, i suoi personaggi e i suoi misteri.

All’inizio degli anni Ottanta Bill Gates e Paul Allen decidono che la sede della Microsoft debba essere a Redmont, nella Contea di King, parte dello stato di Washinghton, a soli venti minuti dal centro di Seattle. In città anche un altro ufficio muove i primi passi, e nel giro di non molto diventerà uno dei simboli paradigmatici della globalizzazione, e si espanderà, grazie al web, in tutto il mondo col nome di Amazon. E dal momento che certe coincidenze a volte rivelano solo verità nascoste, non ci sembra per niente un caso che Seattle si prepara a diventare anche la sede e la capitale del nascente movimento di protesta No-global.

E la musica?

Alcune istantanee hanno bisogno di un po’ di tempo per collocarsi nel giusto posto di un mosaico. Per ora sparse sul tavolo della memoria abbiamo quella di un giovanissimo Novoselic che scarica il furgone dei Melvins, di band garage dai nomi improbabili pronte a prendere parte a una compilation, che vista l’epoca si direbbe “seminale” per quella nascente scena, e un aspirante discografico intento a spillare soldi alla fidanzata da investire proprio in quella visionaria registrazione. E poi ci sono nomi come Andrew Wood o Jack Endino, pronti a prendersi il loro posto nel mondo. Soprattutto Wood, impegnato prima a capeggiare i suoi Malfunkshun, e in seguito a dare volto e voce ai Mother Love Bone, probabilmente il vero cuore di tutto ciò che prenderà il nome di grunge. E infine una superband avvolta ancora oggi dal mistero: i Temple of the Dog.

“È uno stile rock col sentimento di diversità che molti provano al Nordovest, un misto di orgoglio regionale, autoironia, cocciutaggine e spirito pionieristico.” Claudio Todesco

La musica punk, intanto, arrivava di corsa dalla fine dei Settanta, conquistandosi spazi musicali un po’ dappertutto. Tranne che a Seattle. Lì, in quella che aveva nel destino di imporsi come la capitale mondiale della musica, non c’erano club e non c’erano risorse. I bar che ospitavano per lo più cover band , pretendevano il loro tornaconto in termini di afflusso e guadagno. Dunque non restava che affittare sale che svanivano la sera stessa per ritornare a essere spazi vuoti. Almeno fino all’apertura di un club come il Bird.

Quel vuoto era ancor più accentuato dalle venti ore di distanza da San Francisco che spesso scoraggiavano i manager delle rock band in voga a raggiungere posti così periferici, e questo aspetto (di fatto un ostacolo) non è affatto secondario rispetto alle carartteristiche che contribuiranno a creare di lì a poco un sound riconoscibile, di una scena cittadina che pian piano comincia a plasmarsi, come ci chiariscono meglio anche le parole di Steve Turner dei Mudhoney, che andando avanti in questa storia acquisiranno sempre più valore.

“Il fatto che poche band di livello nazionale venissero a suonare a Seattle, faceva si che l’attenzione fosse rivolta ai gruppi locali. Erano gli unici che potevamo effettivamente ascoltare dal vivo e quindi erano loro che ci ispiravano.”

Allora non stanchiamoci di chiederci perché l’ultimo sussulto di una scena rock che scuote l’intero pianeta, nasce in una città alla periferia dell’impero. Le risposte più verosimili possono sintetizzarsi in due aspetti decisivi, strettamente collegati tra loro: l’essere spesso snobbata dai principali tour delle rockstar, e il conseguente isolamento che porta i musicisti di quel territorio a chiudersi a guscio e suonare solo tra loro, non seguendo più di tanto le mode o i successi del periodo. L’impermeabilità della scena di Seattle porta alla frequentazione degli stessi luoghi, compresi quelli di registrazione, e anche per questo l’attitudine e le sonorità cominciano a somigliarsi. L’etichetta Subpop diventa il marchio di fabbrica.

Come ribadisce Dave Ghrol, passato nel frattempo dalla batteria dei Nirvana alla guida dei Foo Fighters, per raccontare il fenomeno del grunge bisogna raccontare l’isolamento. E in questo scenario di isolamento e impermeabilità pare ormai assodato che due compilation giocarono un ruolo decisivo per compattare la scena sia sul piano musicale che fisico. Una è sulla bocca di tutti, lanciata dalla Sub Pop (etichetta che avrà un posto di tutto rilievo), l’altra compilation, meno conosciuta, e per di più mixata e masterizzata con risultati quanto meno rivedibili, ha forse avuto un peso ancora più importante, sebbene sotterraneo, ma a cui va sicuramente riconosciuto il merito di essere stata la prima, seppur di solo qualche mese. Si tratta della raccolta DEEP SIX, pubblicata nel 1986, della C/Z Records di Chris Hanzsek. Con queste due compilation si smuovono un po’ le acque. Ricordiamo che in quella della Sub Pop era impegnato anche quello Steve Albini, che in questa storia avrà un importante ruolo da produttore, non ultimo per Kurt Cobain e soci. A conferma che il vero suono di Seattle catturato dai Nirvana, più che nel celeberrimo Nevermind, riecheggia maggiormente nel prima e nel dopo, quando a produrre Bleach si affidano a Jack Endino, e per In Utero a Steve Albini appunto.

Ma procediamo con calma.
Chris Hanzsek è un aspirante discografico, spiantato fino al midollo ma che ha maturato un’esperienza come disck jokey, che nei Settanta avevano ancora il nobile compito di selezionare e diffondere, dalle radio, musica nuova per farla conoscere. Chris ha una folle intuizione. Puntare le sue fiches lavorative ed esistenziali su Seattle. Perché? Per due motivi: è affascinato dal paesaggio nuturalistico che lambisce la città e vede nella verginità della scena musicale una possibilità da sfruttare. Detto-fatto, lascia tutto, si traferisce e nel giro di poco è davanti al suo studio di registrazione ad accogliere i Melvins per una incisione. È in questo esatto momento che incrocia per la prima volta Krist, in equilibrio sulle sue gigantesche Converse, il ventenne futuro bassista dei Nirvana, in veste di roadie dei Melvins. Ma di personaggi che segneranno l’ascesa del grunge, Hanzsek, ne accoglie parecchi tra quelle mura, portati lì proprio dal lavoro su quella compilation. Oltre ai Melvins, saranno nella tracklist i Green River di Mark Arm, i Malfunkshun di Andrew Wood, gli Skin Yard di Jack Endino (qui chitarrista ma in seguito uno dei principali produttori musicali), ancora la band The U-Men, e i Soundgarden di Chris Cornell.

Intanto accadono altre cose, come per esempio che i Melvins si defilano, oltre che geograficamente (un po’ lo erano sempre stati), anche dalle loro solite sonorità, optando per scelte più morbide e “lente”, abbandonando quei suoni ruvidi che li avevano caratterizzati fino ad allora, proprio mentre la nascente scena musicale stava virando verso di loro, e lo farà con una forza inaudita. Quella forza inaudita sarà scaraventata in tutto il globo, e discograficamente se ne faranno alfieri soprattutto quattro band, quattro nomi un po’ a conoscenza di tutti, ben oltre il grunge: Soundgarden, Alice in Chains, Nirvana e Pearl Jam.

Temple of the Dog invece è un nome da sempre avvolto nel mistero. Sulla carta una superband, attiva proprio in quegli anni d’oro a Seattle, ma di fatto poco più di una meteora. Cercheremo di capire anche questo. Ma intanto guardiamoci un po’ intorno, per sapere cosa sta succedendo oltre Seattle in ambito musicale.

Nel mondo, nel mercato discografico, nella seconda metà degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, a spopolare è quella sorta di hair metal portato avanti da Motley Crue, Def Leppard, Poison, Bon Jovi o Van Halen. Ma la band che va per la maggiore, il progetto più solido, il gruppo da battere dall’uscita nel 1987 di Appetite for Destruction e del seguente Lies, sono i Guns’n’Roses di Axel e Slash, salpati dalla Città degli Angeli alla conquista di una generazione intera.

A inizio Novanta la storia comincia a cambiare anche a livello discografico, quando da Seattle sono pronti a sciogliere gli ormeggi per andare alla conquista del mondo i dischi di un manipolo di band capeggiate da Nirvana, Soundgarden, Pearl Jam e Alice in Chains.

Cosa hanno di diverso e di nuovo e cosa accomuna tra loro queste band?
Perché si parla di “suono di Seattle”?

Musicalmente c’è un ritorno a una strumentazione scarna ed essenziale, chitarra, basso e batteria, lasciando da parte sintetizzatori, tastiere ed effetti. Il sound che ne viene fuori accomuna la scena, è il marchio di fabbrica delle band che cominciano ad affermarsi, sebbene con sfumature diverse tra loro: i Nirvana si attestano su un punk rock con ritornelli ammiccanti ed echi noise, i Soundgarden in bilico tra hard rock e un metal del tutto personale, I Pearl Jam sono forse quelli col suono rock più tradizionale e gli Alice in Chains decisamente più rivolti a sperimentazioni metal che avranno una grande influenza su molte band dei tardi anni Novanta. Ma ad assimilare questo manipolo di cavalieri della nuova ondata rock, ci sono anche i capelli lunghi al naturale, non quelli imbellettati, i maglioni pesanti, e le camicie a quadri da spaccalegna, su jeans sdruciti e Converse consumate ai piedi.

E i Temple of the Dog?
Per capirlo ritorniamo a un vecchio incontro in sospeso, quello con Andy Wood, che avevamo lasciato alla guida dei Malfunkshun. Andrew entra nei Mother Love Bone e comincia ad affrancarsi dalle precedenti sonorità garage punk, dando spessore a questa band che per certi versi guida la transizione dal più fitto underground ai grandi palchi. Ad affiancarlo molti musicisti che come vedremo a breve, daranno vita a band molto famose, vincendo la scommessa con la musica. Andy, invece, la sua partita contro la droga la perde e muore nel 1990. Chris Cornell, che passerà alla storia come voce dei Soundgarden prima e degli Audioslave poi, è un suo caro amico. Cosi, quando scrive le prime canzoni chiama il chitarrista e il bassista dei Mother Lova Bone, che rispondono al nome di Stone Gossard e Jeff Ament (futuri Pearl Jam), con l’intenzione di registrare un singolo con quei due brani. Il gruppo andava completato, e ciò avvenne con Matt Cameron (Soundgarden) alla batteria e Mike McCready (futuro Pearl Jam), altro chitarrista. Andando avanti con le prove ci si accorse che c’era il materiale per un album intero. Fu così che il 16 aprile del 1991 per la A&M Record vede la luce l’unico, e omonimo disco dei Temple of the Dog, a cui nel frattempo si era unita anche un’altra straordinaria voce: Eddie Vedder. L’album non ebbe un grandissimo successo, anche se un anno dopo Hunger Strike, il brano cantato da Vedder fu ripubblicato diventando disco di platino. I Temple of the Dog dunque sono stati questo, il gruppo che ha contenuto in sé, seppur per un breve periodo i Pearl Jam e i Soundgarden, che aveva contemporaneamente due delle voci fondamentali del grunge e non solo, Eddie Vedder e Chris Cornell, e che forse a distanza di anni, nasconde ancora segreti di quel periodo in bilico tra formazione e affermazione di quel suono.

Questa ricognizione nel “backstage” del grunge ci fa capire ancora di più come le camicie a quadri di Cobain, la determinazione di Cornell, la costanza dei Pearl Jam e degli Alice in Chains, abbiano radici ben solide in un microcosmo che ne ha permesso la formazione, senza per questo annullare le qualità e le scelte peculiari di ognuna di queste band, sia in quel momento che negli anni a venire. È vero, nelle strade di Seattle di quel suono adesso non c’è più traccia, ma alcune di quelle icone, di quelle immagini partorite a Seattle, come per esempio quella copertina del dollaro appeso all’amo, probabilmente, molti di voi, a distanza di anni e di chilometri, ce l’hanno anche adesso a portata di sguardo.


Per approfondire
Grunge- Il rock per le strade di Seattle – Caludio Tedesco (Arcana)
Oltre i Nirvana – Valeria Sgarella – Edizioni Del Gattaccio
Andy Wood. L’inventore del grunge: Vivere (e morire) a Seattle prima dei Pearl Jam – Valeria Sgarella