Attenzione: contenuto ad alto livello di spoiler, per chi non avesse ancora visto la prima stagione di Stranger Things consiglio vivamente di mettere da parte per il momento l’articolo che segue e di lasciarsi divorare dalle otto puntate della prima stagione. Solo in seguito, consiglio di riprendere l’articolo e farsi una grossa scorpacciata di nostalgia in attesa del 27 ottobre, data in cui uscirà la seconda stagione.
Ed ecco qui la storia che ha tenuto tutti noi incollati allo schermo della serie televisiva statunitense nel corse delle otto ore che la compongono. Intrepidi e accaniti esploratori della valle delle ombre è quasi tempo di scoprire cosa sarà successo a Will, in seguito ai lunghi giorni passati nel sottosopra e se la dolce e potente Undi è riuscita in qualche modo a sopravvivere allo scontro con il Demogorgone, nelle ultime inquadrature che l’hanno ripresa. Sono questi i dubbi con cui Stranger Things ci ha lasciati, ma partiamo dall’inizio.
I fratelli Duffer hanno trasportato in pellicola il loro grande tributo al cinema di fantascienza del ventennio ’70-’80 che ha portato questo genere ai più estremi e meglio riusciti risultati. Nel corso delle inquadrature e delle puntate che formano la serie, saltano all’occhio diversi riferimenti, tanto per iniziare, la serie si apre con i quattro giovani protagonisti che seduti, si destreggiano con Dangeors & Dragons, famoso gioco da tavola che ritroviamo anche nella scena iniziale di E.T. l’extra terrestre prima che il giovane Elliott trovi l’alieno nella rimessa degli attrezzi. Il gioco da tavola li tiene incollati lì da 10 ore, gli ultimi risultati prima del congedo rivelano ciò che da lì a poco sarebbe successo allo sventurato Will. Così come in Jumanji (1996), la realtà ed il gioco si mischiano, formando una dimensione da cui uscire è difficile.
La serie riesce a catturarci legando la fantascienza all’ingenuità e all’astuzia dei bambini che ne sono protagonisti. Gli ideatori della serie riescono abilmente a presentarci i personaggi nel giro delle prime due puntate, investendo dinamicamente gli spettatori e facendoli appassionare sin dall’inizio. Vorrei a questo proposito ricordarvi le prime scene che ci presentano il capo della polizia Hopper. I Duffer ci mostrano una panoramica della casa dell’agente e le prime azioni che egli compie la mattina appena sveglio. Senza aggiungere parola alcuna riescono a farci ricostruire la figura di un personaggio stereotipato, dipendente dall’alcool e dai farmaci che tristemente trascina la sua vita ogni mattina nella caserma di uno dei più piccoli e tranquilli paesini dell’Indiana.
Particolarmente interessante è l’evoluzione personale che vediamo compiere sulla scena da Hopper. Nel corso delle puntate si libera dal personaggio che nelle prime inquadrature ci era parso e tramite un intreccio tra passato e presente in qualità di capo della polizia riusciamo a vederlo sotto una luce diversa. Riuscendo a creare un varco nella dura corazza che egli stesso, con gli anni, si è costruito ci lascia intravedere la sua vera natura, quello del padre amorevole e del professionista disposto a rischiare il tutto per tutto pur di riuscire ad arrivare alla verità, celata tra le spesse mura del laboratorio Hawkins.
Caratteristica dell’opera è una precisa attenzione nella costruzione dei personaggi, caratterizzati tutti da situazioni sociali e caratteri definiti, a volte anche soggetti a mutamenti e a percorsi di crescita che spesso scuotono l’essere umano in quanto tale. Le faccende che si consumano e ci trascinano nel vortice della paura e del mistero di cui la serie è intrinseca si diramano in un intreccio di ricerche. Vediamo quindi che si aprono diversi campi d’indagine, quello dei ragazzini che sperano di ritrovare il loro amico con l’aiuto di Undici, quello di una madre disperata in bilico tra lucidità e falsa follia accompagnata dal capo Hopper e infine il giovane e sensibile Jonathan che con l’aiuto di Nancy si avventura nella foresta in cerca del mostro oscuro che aveva precedentemente fotografato.
Le tre strade che vengono tracciate seguono percorsi diversi e sfiorandosi l’uno con l’altro non riescono a trovare il modo per raggiungere Will. Solo quando i tre fili rossi si intrecceranno tra di loro riusciranno a creare una corda tanto forte da riuscire a riportare il piccolo sventurato di nuovo sulla terra.
Se i personaggi buoni della serie hanno caratteristiche così ben definite e limpide, dall’altra parte, il male viene rappresentato da due forze oscure, quella del Dottor Martin e del suo team e del Demogorgone, predatore della valle delle ombre che a richiamo del sangue torna sulla terra per cibarsi di facili e impotenti prede. La malvagia del Dottore riesce a superare perfino l’amore innato per la sua stessa figlia, che nata con super poteri, è costretta dal padre ad affrontare prove che mettono sotto sforzo lei e le sue capacità sovrannaturali, facendola superare i limiti dello spazio da noi conosciuto. Ancora una volta il potere è nelle mani dei malvagi, il governo, che finanzia gli studi che si svolgono all’interno del laboratorio. L’intento che traspare e si evince nelle parole non pronunciate dalla madre della ragazza superdotata è quello di utilizzare Undici come arma contro il pericolo comunista, che nel 1985 teneva sotto pressione lo Stato.
Tutte le dinamiche intriganti ci vengono presentate tramite la precise e minuziose inquadrature, che con la loro geometria inquadrano i personaggi in una dimensione in bilico tra staticità e dinamismo, creando atmosfere che ci ricordano quelle di Kubrick in alcuni suoi film.
Ed infine, a colorire il tutto ci sono le colonne sonore, scritte da Michael Stein e Kyle Dixon. La loro musica elettronica si sposa perfettamente con il periodo storico scelto dagli ideatori come ambientazione della loro storia fantascientifica, mischiandosi e rievocando le atmosfere dei lontani ma mai così vicini anni ’80. Ad accompagnare noi e a confortare il piccolo Will c’è invece Should I stay or should I go, celebre brano dei Clash. Questa e altre canzoni, come Atmosphere dei Joy Division, che hanno fatto da pilastro di quegli anni si presentano nel corso delle puntate in un’armonia sempre perfetta.
I fratelli Duffet ci hanno regalato quello che da tempo aspettavamo inconsapevolmente, una serie capace di divertirci, farci sorridere, spaventarci e tenerci sul filo del rasoio dall’inizio alla fine. Qualcosa di meraviglioso ma allo stesso tempo terrificante, che coinvolgendoci ci ha trasportati nel magnifico universo costruito da quei quattro ragazzini e reso reale da un laboratorio scientifico. Non ci resta che aspettare la seconda stagione con la convinzione quasi certa che non verremo delusi. A presto e mi raccomando, fate attenzione, il varco per il Sottosopra è incredibilmente vicino a noi!