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Spacca Napoli: suoni e storie della città #2

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Secondo appuntamento del viaggio attraverso i suoni e le storie di Napoli, uno speciale focus-racconto sulla musica di una città – dal jazz di importazione americana agli anni Ottanta, dal Neapolitan Power e Pino Daniele, fino alla cultura underground. Buona immersione tra le strade di Napoli.
Ernesto Razzano è autore di Firenze lo sai, suo primo romanzo uscito per Edizioni 2000diciassette. Scrive di musica per magazine e periodici ed è fondatore del Morgana Music Club di Benevento.

Clima di tensione

Gli anni Settanta a livello sociale e politico per l’Italia saranno durissimi, per tutti, e per i giovani in particolar modo. Con un minimo di accettabile semplificazione, il periodo detto “strategia della tensione” viene datato dalla strage di Piazza Fontana a Milano del 1969, fino all’attentato nella stazione di Bologna del 2 Agosto del 1980. È un periodo storico che in questo intervallo di tempo si manifesta certamente con il suo volto più tragico, ma è certo che le trame eversive abbiano preso il via sotto traccia già da qualche anno prima, pensando magari a colpi di stato militari da portare a termine, cosa diffusa in molte parti del pianeta, basti pensare al Piano Condor (dittature con il benestare degli Usa), che coinvolgeva molti paesi dell’America Latina, o alla dittatura militare in Grecia. Il piano per l’Italia mirava a un duplice obiettivo che poteva essere sia complementare che parallelo, vale a dire, sia una svolta reazionaria manifesta, sia un’influenza e una pressione sulla tenuta del sistema politico democratico per destabilizzarlo e fermarne lo scivolamento in atto del proprio asse, verso le forze di sinistra, rafforzatesi dopo il Sessantotto e forti anche delle lotte vinte nell’Autunno Caldo. Con l’abbattimento del muro di Berlino nel 1989, gli equilibri geo politici mondiali appaiono da un giorno all’altro obsoleti e dagli archivi non più segreti si comincia a ricostruire molto della storia passata.

In Italia verranno alla luce le trame eversive che contemplavano anche la presenza dell’organizzazione paramilitare Gladio, pronta a scendere in campo in chiave anti comunista. L’estrema sinistra negli anni Settanta è in crescita, così come quella extraparlamentare. L’Italia è probabilmente il paese con più sigle attive sul proprio territorio. Lo scontro sociale, col correre del decennio, si fa sempre più aspro. Arrivano anche gli anni del brigatismo, quelli del piombo. Anche la musica risentirà di questo clima di tensione, che per quanto riguarda i grossi raduni, (da Woodstock in poi si erano generati dappertutto come emulazione dell’evento americano), raggiungerà il suo apice negativo al concerto del Parco Lambro a Milano del 1976. Ma non basta, le rockstar, per il decennio intero, depenneranno l’Italia dai loro tour a causa degli scontri di matrice politica che non ne permettevano un tranquillo svolgimento. Anche i cantautori italiani, vicini a settori della sinistra, incluso di quella estrema, avranno momenti di scontro e incomprensione con parte del movimento. Sarà il caso di Francesco De Gregori e di Edoardo Bennato, quest’ultimo nel suo brano Cantautore farà riferimento a tutta questa vicenda. Anche Napoli ovviamente vivrà il peso di questi anni. Va però detto che a livello musicale e artistico saranno forse per la città anni irripetibili, che lasciano un patrimonio ancora adesso in parte inesplorato.

Disinfestazione delle strade di Napoli durante l’epidemia di colera del 1973

Napoli però, oltre che con tutto questo, dovrà fare i conti con un’altra sciagura che si sta per abbattere sulla città. Una partita di cozze avariata, salpata dalle coste tunisine, e contenente il vibrione del colera, infetta Napoli e Barcellona, creando paura e tensione in tutta la città. In realtà si tratta di una vera e propria pandemia che da anni sta colpendo decine di altri paesi del mondo seppur in zone circoscritte. La città, impaurita e stremata reagisce, dopo alcuni tentennamenti iniziali che manifestano la poca reattività della classe politica, vaccinando in tempi brevissimi (una settimana) un milione di persone, grazie anche alle più funzionali siringhe a pistola fornite dalla flotta americana, già usate per le vaccinazioni durante la guerra in Vietnam. In soli due mesi, dal 24 agosto, data del primo caso infetto rilevato, alla fine di ottobre la questione viene pressochè risolta. I morti saranno poche decine, gli infettati molti di più ma pian piano si rimetteranno. Il blocco della pesca però sarà un colpo durissimo per migliaia di famiglie che dal mare ricavavano di che vivere. Quell’epidemia lascerà un segno profondo di razzismo, alimentato anche da certi giornali del nord, nei confronti dei napoletani, che avrà un palcoscenico privilegiato e non ancora del tutto debellato, negli stadi di calcio.

Proteste per l’epidemia di colera

Dagli Showmen in poi…

“Quando nel 1985 mi accinsi a comporre il “Requiem in memoria di Pasolini”, pensai subito alla voce di James Senese e al suo indissociabile sassofono. […] Pensai a James come anima vocale di Pasolini, ma anche come corpo dolente di un trauma storico che ci ha contrassegnato con le stimmate sanguinanti del dopoguerra. […] Il vibrante fascio spettroscopico del suo sax ha sempre manifestato il disagio profondo di una napoletanità sotterranea, nera, underground, che preme come un demone incubo sulla coscienza della Napoli perbene, quella degli industriali locali, degli arricchiti del dopoguerra, dei palazzinari, degli avvoltoi dei terremoti, […] nella sua aspra vocalità, risuona una secolare maledizione, la lacerazione di ferite che non trovano lenimento né conforto né comprensione da parte di una città cieca e distratta, che al melodismo più dozzinale e conformistico volge le sue volgari attenzioni.” Roberto De Simone

Sugli anni Sessanta va detto chiaramente che l’esperienza degli Showmen è stata una pietra preziosa che ha arricchito certamente Napoli. Le loro performance, soprattutto dal vivo, sono probabilmente il top anche a livello nazionale per quel periodo. Nel passaggio alle major e alla lingua italiana, sui dischi forse perdono un po’ di quella formidabile energia che ci conferma ancora una volta che la musica è soprattutto quella suonata. Il loro scioglimento non significa la fine del contributo che invece ognuno di loro aveva appena cominciato a dare.

L’eco dei grandi concerti internazionali e la visione della pellicola di Woodstock, anche in Italia ha i suoi effetti e così si cominciano a organizzare raduni e festival di vario genere, da quelli pop rock fino a quelli d’avanguardia. E Napoli tira fuori due progetti originali che proprio tramite questi festival si fanno conoscere anche nel resto del paese. Nel 1971 con il loro primo disco, L’uomo, esordiscono gli Osanna, venuti fuori dall’unione di Elio D’Anna, fuoriscito dagli Showmen, con i vecchi Volti di Pietra, diventati nel frattempo Città Frontale e che vedono nella formazione Lino Vairetti come frontman e il chitarrista Danilo Rustici, oltre Lello Brandi e Massimo Guarino. Il suono progressive degli Osanna, si impone immediatamente anche a livello nazionale. Dopo l’esordio, vengono coinvolti da Luis Bacalov nella colonna sonora del film Milano Calibro 9, per poi essere sullo stesso palco dei Genesis di Peter Gabriel, che pare abbia preso spunto per i suoi show successivi, dalla performance della band napoletana, che cominciava a esibirsi con il viso colorato già allora. Nel 1973, l’album Palepoli (città vecchia) li consolida ancora di più nel mondo del prog ma allo stesso tempo mantiene vivo il legame anche con alcune sonorità legate alla città di Napoli, tenendoli a pieno titolo anche nella marea montante del Neapolitan Power.

In questo momento di ulteriore svolta e rinnovamento si iscrive anche l’esordio avanguardistico di un giovane Alan Sorrenti, che ben lontano dalle sonorità pop, che, anni dopo, con Figli delle Stelle lo renderanno un re delle classifiche, si fa conoscere con due album: Aria, il primo, del 1972 e Come un Vecchio Incensiere all’alba di un Villaggio Deserto, del 1973, il secondo. Due lavori, tra il progressive e la sperimentazione, vista anche la durata di alcuni brani che coprono l’intera facciata di un vinile, che rivelano le novità musicali e vocali del partenopeo gallese, che per l’utilizzo della voce viene immediatamente accostato a un cantautore eclettico e geniale come Tim Buckley. Di grande successo la prima mossa inaspettata di Sorrenti: prende un brano classico del repertorio napoletano, Dicitencello vuje, e lo interpreta e arrangia a suo modo. Il singolo accende ancor di più un interesse su di lui e la sua musica. Nella prima metà del decennio gli Osanna, dopo una partenza col botto, si prendono una pausa e danno vita ad altri progetti, per poi ritrovarsi più avanti. È così che nascono gli Uno con Enzo Valicelli e Danilo Rustici, e ancora i Città Frontale con Lino Vairetti, Gianni Guarracino e Enzo Avitabile al sassofono, che daranno vita a un bel disco dal titolo evocativo “El Tor” che è il nome scientifico del vibrione del colera. Dello stesso genere va menzionato anche la band Il Cervello con Gianluigi Di Franco alla voce e Corrado Rustici, fratello di Danilo, che diventerà un chitarrista importante di livello internazionale.

Osanna; Alan Sorrenti

Il 1973 è un anno difficile a causa della diffusione del colera, ma la musica non si ferma mai e continua con il suo periodo d’oro. Arriva anche il primo album di Edoardo Bennato dal titolo Non Farti Cadere le Braccia. Il cantautore di Bagnoli si porta dentro i ritmi americani del blues e la carica del rock cantautorale alla Bob Dylan, oltre a una innata grinta sprigionata dal vivo. I suoi concept album ispirati alle fiabe sono sempre un attacco al potere e ai politici che non sono in grado di migliorare la vita alla gente. Anche quando si trasferisce per studiare architettura a Milano, lascia sempre spazio nei suoi lavori per parlare di Napoli, di Bagnoli e di quel mondo che l’ha cresciuto. Il suo disco d’esordio si conclude con una suggestiva canzone dal titolo Rinnegato, in cui i riferimenti non sono per nulla casuali. Ma Rinnegato da chi? e perché?

“Eugenio dice che io sono rinnegato/Perché ho rotto tutti i ponti col passato
………………..
Avete letto mai Roberto De Simone?/Ha fatto un lungo viaggio nella tradizione
E dice che in Italia, col passar degli anni/La musica peggiora e non si va più avanti
Rinnegato, sei un rinnegato, non ti conosciamo più”

Anima Popolare e Colta

La Napoli musicale americana, nata dalla guerra, continua nel tempo a contaminarsi, a sintetizzare le esperienze e a fare balzi in avanti, ma non è l’unica in fermento artistico e culturale. Anche l’anima musicale popolare crea i propri percorsi, e si rinnova senza negarsi, fino a vivere una nuova e lucente stagione. Nel 1944, ad assistere a uno di quegli spettacoli allestiti per far dimenticare prima possibile la guerra, la Turandot di Puccini per l’esattezza, c’è un ragazzino nato alla Pignasecca che resta colpito dall’evento e decide che la musica e il teatro saranno la sua vita. Roberto De Simone diventa compositore, regista teatrale e musicologo negli anni successivi. Il repertorio popolare, nel suo recupero e nella sua riproposizione, viene sottoposto a un rigoroso lavoro di scrittura ed elaborazione metrica, frutto di una ricerca sul campo che si addentra nella tradizione scritta e orale, spingendosi in tutto il territorio campano, dando vigore alla musica popolare colta. (Sulle stesse coordinate, a metà anni Settanta, nelle zone interne della Campania cominciava a muoversi l’esperienza del Collettivo di Ricerca Musicale del Sannio, poi continuato ne Imusicalia, tra l’altro autori del noto brano Serenata). La ricerca di De Simone incrocia musica e teatro.

 

Eugenio Bennato, Roberto De Simone, Fausta Vetere, Patrizio Trampetti

Sul finire degli anni Sessanta, l’incontro con un gruppo di giovani che condivide questa impostazione porta alla formazione della Nuova Compagnia di Canto Popolare (NCCP), dove oltre a De Simone troviamo Eugenio Bennato, Carlo D’Angiò, Giovanni Mauriello e in seguito Peppe Barra, Patrizia Schettino, Patrizio Trampetti, Fausta Vetere e Nunzio Areni. È un rinnovamento che arricchisce ancor di più la Napoli degli anni Settanta, rendendola più variegata e luccicante. Il capolavoro La Gatta Cenerentola è forse il momento più noto del gruppo partenopeo, ma qui ci interessa sottolinearne soprattutto il contributo e la presenza in una città davvero nel pieno dell’età dell’oro dal punto di vista artistico. Alcuni di loro, a partire da De Simone, contribuiscono anche all’esordio cantautorale di Edoardo Bennato, come dicevamo, e il testo del brano Rinnegato, manifesta anche quanto fosse vivo e aperto il confronto verso le scelte artistiche e le strade da intraprendere.

La NCCP nella seconda metà degli anni Settanta vivrà una profonda scissione quando Eugenio Bennato e Carlo D’Angiò si separeranno dagli altri, per dar vita al progetto Musicanova, iniziando a indagare musicalmente il fenomeno del brigantaggio, opportunità avuta anche grazie alla proposta da parte della Rai di curare le musiche dello sceneggiato “L’eredità della Priora”, tratto dal romanzo di Carlo Alianello e ambientato in Basilicata durante il periodo post unitario, in occasione del quale composero il brano Brigante se More, diventato un pezzo di culto. Rispetto alla precedente esperienza, oltre a un ampliamento dei confini riguardo ai temi, la band utilizzerà maggiormente un approccio folk-rock. Nel tempo Eugenio Bennato in particolare volgerà la sua ricerca verso le musiche tradizionali di altri territori del Meriodione e del bacino mediterraneo in generale. Un’altra esperienza singolare e radicale di quel periodo, è quella degli ‘E Zezi – Gruppo Operaio. Un collettivo molto ampio nato intorno all’idea di una musica popolare diversa da quella della “classe borghese”. Il punto di origine è Pomigliano d’Arco, territorio per loro paradigmatico dei paradossi dell’industrializzazione forzata, il cui culmine è la fabbrica, l’Alfasud nello specifico. Il loro esordio discografico data 1975 col disco “Tammurriata dell’Alfasud” e vede tra i tanti musicisti anche un giovanissimo Daniele Sepe.

Alla metà del decennio, musica e teatro si cercavano spesso, non solo sulla rivisitazione del mondo tradizionale, ma anche nella ricerca di un racconto più sincero della Napoli di quegli anni, lontano dagli stereotipi e più vicino al quotidiano che la vita vissuta proponeva. Muove i primi passi in teatro La Smorfia di Massimo Troisi, Lello Arena ed Enzo De Caro, e una band che si presta spesso a musicare opere teatrali che prende il nome dalla battaglia tra rane e topi, e che comincia a far conoscere un giovane musicista che si prepara a lasciare un segno indelebile nella storia della musica a Napoli. La band si chiama Batracomiomachia, e mette insieme Paolo Raffone, Rosario Jermano, Rino Zurzolo, Enzo Avitabile, Enzo Ciervo e Pino Daniele.

Enzo Ciervo, alla Sanità, aveva uno spazio in vico Fontanelle, chiamato La Grotta. Era il ritrovo della nuova Napoli musicale, una sala prove, uno spazio da cui passarono tutti e in cui si facevano infinite jam sassion e altrettante infinite chiacchierate sul futuro.

I chiaroscuri di Napoli

Nel cuore del decennio, James Senese, superando anche la seconda esperienza con gli Showmen, quella senza Mario Musella, fonda una nuova band, prendendo in prestito il nome della stazione ferroviaria di Piazza Garibaldi, a rimarcare un luogo di incrocio e transito di culture diverse. Nascono così, nel 1975, i Napoli Centrale, una delle band più importanti del periodo, non solo a Napoli, con un sound che mescola il jazz con il rock e il prog, su testi in napoletano che raccontano storie di sfruttamento e oppressione. Un mondo sonoro, fusion, in cui si incontrano i riferimenti più profondi di Senese: Miles Davis e John Coltrane con le suggestioni dei Weather Report, non rinunciando alla radicalità dei testi e all’affiatamento da band, dovuta anche alla presenza del suo batterista e compagno degli esordi, Franco Del Prete. I Napoli Centrale si prendono anche loro la scena e sono un tassello decisivo nell’esplosione del Neapolitan Power.

C’è una nuova Napoli che sta venendo fuori in modo piuttosto evidente. Una Napoli che comincia a raccontarsi in modo sempre più reale, crudo, con amore ma anche con un profondo grado di dignità, lontano dagli stereotipi e dalle cartoline che sommano pizza e mandolino per coprire con i ritmi del folklore tutto quello che non va. Nel teatro, e poi ai primi anni Ottanta anche nel cinema, avrà il volto di Massimo Troisi e della Smorfia, che si guadagnerà spazi televisivi nazionali in cui farsi immediatamente conoscere e apprezzare, e nella musica quella di Pino Daniele che è ormai pronto a far conoscere le sue prime, dirompenti e incantevoli canzoni, raccolte nelle tracce del suo primo album Terra Mia del 1977. Le esperienze che precedono il suo esordio discografico contribuiscono a preparare il terreno di quello che sarà il fulcro principale del Neapolitan Power, movimento che, dal punto di vista strettamente musicale, è già in incubazione da qualche anno con gli Osanna, Alan Sorrenti, i Napoli Centrale e in parte Edoardo Bennato, ma che con Pino Daniele esplode definitivamente fino a travalicare decisamente i confini. Come detto, “Pinotto” per gli amici, ha una delle sue prime esperienze con il gruppo Batracomiomachia, poi collabora al disco di Mario Musella del 1975 uscito per la King di Aurelio Fierro, e contribuisce fortemente con le sue chitarre a tutto l’album del 1976 dal titolo Suspiro, di Jenny Sorrenti, la sorella di Alan. Jenny chiude la precedente esperienza con la sua band progressive Saint Just per affidarsi alle chitarre del giovane musicista nato al quartiere Porto, ma cresciuto dalle zie, Bianca e Lia, a Santa Maria La Nova. Prima di partire per un tour in Belgio, nella band di Bobby Solo, viaggio che gli permette di vedere da vicino il bluesman Fats Domino, Pino consegna un nastro con alcune sue composizioni al giornalista musicale Claudio Poggi. Poggi, folgorato dagli ascolti di quella manciata di provini, sarà l’artefice dei contatti con la Emi che porteranno alla registrazione del primo disco. Ma prima di questo, Pino Daniele, fa in tempo anche a collaborare con Gianni Nazzaro e a partecipare al terzo disco e ad alcuni live dei Napoli Centrale, in veste di bassista.

“Terra mia è tutto me stesso, Terra Mia è Pino Daniele. E’ Tutto quello che io voglio dire anche nei dischi che farò in futuro. E’ tutto quello che io sento e che io voglio esprimere.
Pino Daniele – Radio Eurosound 1976

Pino Daniele comincia a raccontare Napoli dalla strada, dai vicoli e dalle cantine interrate dove si tenevano le prime infinite jam session. Anche la lingua è quella della strada, quella parlata in quegli anni. Nelle sue canzoni si farà spazio anche l’inglese, quello sceso dalle navi e filtrato dai bassi, proveniente dalle influenze che la città ha assorbito. Una canzone come Ue’ Man, probabilmente è la sintesi della storia che stiamo raccontando, nel dialogo tra gli scugnizzi e i soldati dalle parti del porto. Terra Mia mette in chiaroscuro l’anima della città, raccontando cosa è davvero Napoli, senza sconti, senza nostalgia, ma con un grande amore e rispetto, e con la speranza che davvero insieme si possano cambiare in meglio le cose. Mentre “Napul è”, rappresenta per tutti una nitida ed eterna fotografia di Napoli, anche se “nun sann ‘a verità”, “Terra Mia”, per quanto malinconica nei toni, è la vera canzone rivoluzionaria di Pino Daniele.

“Terra mia, terra mia/Tu si’ chiena ‘e libertà/Terra mia, terra mia/I’ mò a sento ‘a libertà”.

È un disco che non fa sconti, le variazioni dei ritmi musicali non devono nascondere o addolcire le amarezze che denuncia. Luca De Filippo in un’intervista televisiva racconta quanto il padre Eduardo fosse rimasto colpito dalla forza espressiva di quell’esordio musicale, in particolare da “Na tazzulella ‘e cafè”, brano questo che insieme ai ritmi folk di “Ce sta chi ce penza” e “Che calore” entra nelle viscere della città per denunciarne lo sfruttamento, la miseria e le malefatte della politica. Ma le denunce sono anche circostanziate come nel caso del brano “’O Padrone” che prende spunto da un fatto di cronaca: l’esplosione di una fabbrica di fuochi d’artificio a Casavatore, in cui perdono la vita molti operai, e che, dopo una vita di stenti e fatica, anche in paradiso saranno costretti a lavorare sodo, a significare che per alcuni non ci sarà mai pace. Pino non fa sconti neanche a quella gente che si nasconde dietro la comoda scelta dell’omertà di fronte ai soprusi in “Maronna Mia”, (Ce steva tutta chesta gente/Ma che succede/Chesta gente nun me vò aiutà/E’ gente ‘e niente), e continua a raccontare la città che cambia attraverso gli occhi di un venditore ambulante che gira i quartieri, “Fortunato”.

Non sono canzoni rassegnate, anzi, in “Suonno d’Ajere”, Pino tratteggia un Pulcinella pronto a buttare via la maschera e a lottare ancora di più perché le parole da sole, ormai non bastano a cambiare le cose. (Ma a chi stammo aspettanne/Pe stennere ‘sti pann? /’E parole nun fanne rummore). Affreschi sussurrati, ma non meno potenti sono canzoni più intime come “Cammina Cammina” e “Chi Po Dicere” o la splendida “Libertà” che chiude il disco.

L’album è un colpo allo stomaco molto forte, che se a livello commerciale non riscuote immediatamente successo e per molti sarà riscoperto in seguito, in città e tra gli addetti ai lavori, comincia a essere chiara la clamorosa novità che questo giovane musicista autodidatta rappresenta. C’è molto di Napoli, compreso altre denunce, anche nel suo secondo album, omonimo, che intanto lo avvicina al mondo della canzone d’autore tramite il Premio Tenco, e allo stesso tempo ribadisce le tematiche e l’approccio di Terra Mia, con nuove canzoni: Je so pazzo, Uè Man, Donna Cuncetta, Chi ten ‘o mare, E cerca e me Capì, Viento, Il mare, e davvero potremmo metterci tutta la tracklist anche stavolta. Musicalmente comincia a venire fuori ancor di più l’anima marcatamente blues che è una parte importante del suo dna e che troverà una spazio crescente nel suo percorso. Gli anni Settanta musicalmente si chiudono con questo grande fermento che cresce, con Pino Daniele che raccoglie sempre di più attorno a se una schiera di musicisti che con lui faranno la storia negli anni Ottanta, ma ci sono anche notizie inaspettate come la morte a soli 34 anni di Mario Musella, (che tra l’altro era in procinto di riunirsi a James Senese entrando nei Napoli Centrale), a cui Daniele dedicherà il suo terzo album, in lavorazione in quei mesi, cioè Nero a Metà, che aprirà musicalmente gli anni Ottanta e sancirà il definitivo successo del chitarrista partenopeo, che un primo grosso momento di notorietà lo avrà il 10 giugno del 1980, quando aprirà il cocerto di Bob Marley, l’icona vivente del reggae, in un gremito stadio di San Siro a Milano.

Felicissima Sera

Prima di addentrarci nel decennio successivo, accenniamo a un mondo parallelo, che non entra di fatto nella linea narrativa della contaminazione che abbiamo scelto, ma che per delineare gli umori e le espressioni della città, dobbiamo tenere in conto. Gli anni Settanta sono anche il momento del revival della sceneggiata, un’appendice non irrilevante del percorso classico della tradizione partenopea, che nata dall’incontro tra canzone e teatro, troverà ampio spazio anche al cinema. Tra i principali esponenti certamente Mario Merola, Pino Mauro e un giovane Nino D’angelo. A livello musicale avrà un seguito influenzando tutto il percorso pop melodico tradizionale anche negli anni a venire. Curiosa è per altro la sua nascita, datata a fine Prima Guerra mondiale, quando per un inasprimento delle tasse sullo spettacolo, a causa di una nuova legge del 1919, si ricorre a un escamotage con una rappresentazione in scena “mista”.

“Siccome sugli spettacoli teatrali il prelievo fiscale è inferiore, gli operatori creano una forma di intrattenimento che mette in scena il titolo e i contenuti di una canzone famosa.” Daniele Sanzone – Camorra Sound
Jorit  artwork

La sceneggiata racconta storie “d’amore e malavita”, in cui spesso il protagonista deve scegliere tra i suoi “codici d’onore” e la morte o il carcere. Centrali sono i temi della canzone protagonista, che si espande dunque in parti recitate come un vero e proprio dramma, finché si arriva al cuore di tutto con il canto dell’intero brano. La stessa Smorfia di Troisi, Arena e De Caro, la interpreterà in chiave comica proprio per metterne a nudo gli aspetti legati a un mondo tanto discutibile quanto ormai superato, mentre con il revival si cerca in qualche modo di riaffermarne pericolosamente i codici di malavitosi.

 

Napoli violenta, viva e scudettata

“Da San Martino vedi tutta quanta la città/
Col mondo in tasca e senza dirsi una parola/Io ti ricordo ancora
Con gli occhi in mezzo al panico/Nasconde una pistola
Gennaro in fondo al vicolo/Vive con un nodo in gola
Città che non mantiene mai le sue promesse
Città fatta di inciuci e di fotografia/Di Maradona e di Sofia
Ma è la mia città/Tra l’inferno e il cielo”
Un Angelo Vero – Pino Daniele

Gli anni Ottanta sono passati alla storia, quella più superficiale, come quelli del cosiddetto benessere diffuso, della “Milano da bere”, del facile guadagno, della mondanità. Di certo ha inizio la personalizzazione della politica, delle televisioni private che spingono alla leggerezza e al disimpegno, alimentando l’illusione di una prosperità alla portata di tutti.

Tutto ciò ha un prezzo, nasconde un animo nero che si rivelerà un po’ alla volta fino a far sgretolare la cosiddetta Prima Repubblica, (in parte anche la Seconda), sulla cui caduta certamente incideranno anche gli importanti avvenimenti internazionali di fine decennio, che cambieranno l’assetto geopolitico mondiale, ridisegnando la mappa dei partiti, aprendo squarci di malaffare che saranno spiattellati davanti agli occhi di tutti a inizio anni Novanta con i processi di Mani Pulite, nella più importante delle tangentopoli che l’Italia ricordi. Gli intrecci tra affari, politica e criminalità organizzata faranno un balzo in avanti da cui non si tornerà più indietro.

Napoli non è estranea a tutto questo, anzi per certi versi ne è un luogo cruciale, come dimostra l’intera vicenda del caso Cirillo (1981), l’assessore regionale democristiano sequestrato dalle Brigate Rosse e poi rilasciato a seguito di trattative che hanno visto coinvolti politica, criminalità e servizi segreti, fino al pagamento del riscatto, modalità che invece non furono attivate solo qualche anno prima per il rapimento di Aldo Moro. La guerra di camorra in atto dai primissimi mesi del 1980 tra la Nuova Camorra Organizzata e la Nuova Famiglia, semina morte per le strade della città e della provincia. È in ballo un nuovo assetto interno in relazione al peso che la siciliana Cosa Nostra prova a far valere anche in Campania. Gli ingenti flussi di denaro in arrivo per la ricostruzione post terremoto, inoltre, porteranno la criminalità a fare un notevole salto di qualità, lasciandosi alle spalle il contrabbando di sigarette vecchio stampo e dedicandosi al traffico di stupefacenti e al controllo degli appalti, entrando nel campo dell’edilizia sia direttamente che indirettemente tramite la politica. Il racconto di una Napoli sempre vivace e propositiva dal punto di vista atristico non deve neanche per un attimo far pensare che in città ci fossero solo luci, anzi le ombre aumentano costantemente.

I clan non si nascondono e mostrano sempre di più il loro volto arrogante e violento, tanto che anche un giovane cronista del Mattino, ancora precario, come Giancarlo Siani, viene fatto fuori per le denunce del malaffare che cominciava a mettere nero su bianco dalle colonne del giornale. Anche un altro giornalista d’inchiesta viene a mancare in quegli anni, per cause naturali che forse hanno solo anticipato una fine violenta, per i colpi che stava infliggendo alla camorra con le sue inchieste, si tratta di Giuseppe Marrazzo, detto Joe, autore tra l’altro del libro Il Camorrista (1984), sulla vita criminale di Raffaele Cutolo, da cui il regista siciliano Giuseppe Tornatore trarrà il film (1986) con lo stesso titolo. Lo scrittore Roberto Saviano riconoscerà di aver preso molti spunti dai lavori di Marrazzo per il suo Gomorra.

Intanto l’eroina anche a Napoli, come nel resto d’Italia, si era presa una parte della generazione sopravvissuta agli anni Settanta. Il riflusso dopo le lotte dei movimenti tendeva a ostacolare nuove aggregazioni, anche se non bisogna mai commettere l’errore di generalizzare e pensare che anche in quegli anni non ci fossero lotte e proteste a mantenere viva la speranza di un cambiamento. Nel 1984 muore Eduardo De Filippo, un simbolo della città, una presenza che da decenni accompagnava la vita culturale di Napoli, e che negli ultimi anni della sua vita si stava spendendo soprattutto per i più giovani, incluso quelli del carcere minorile.

Ma il 1984 è anche l’anno dell’arrivo a Napoli, dell’unico figlio della città riconosciuto e accettato, pur non essendo nato sotto il Vesuvio. Una città intera si mobilita per raggiungere lo stadio San Paolo a Fuorigrotta, e vedere Diego Armando Maradona, fare qualche palleggio e calciare la palla in aria. Gli occhi incollati a quel pallone i napoletani ce l’avranno per qualche anno, senza staccarli mai, e quel pallone sarà come una pietra lanciata da una piccola fionda per abbattere giganti che mai si pensava sarebbero potuti cadere. Diego comprende da subito di non essere di passaggio a Napoli, sensazione per altro reciproca anche da parte dei napoletani. Napoli, la squadra e la città vinceranno molto più di coppe e qualche scudetto, guidati da Maradona. Diego non se ne andrà mai più. Resta nell’immaginario collettivo di una città intera, sui muri dei palazzi e nei souvenir eterni di negozi e bancarelle, anche quando lascerà prima Napoli, nel 1991 e poi questa terra nel 2020. Quello che lontano da Napoli si fa ancora fatica a comprendere, è quanto l’uomo (fragile, contradditorio e dunque umano) ha dato alla città, non solo il calciatore. Ma resta un problema di chi non lo capisce, attorcigliandosi in difesa di una non ben definita morale.

La Napoli degli anni Ottanta è anche quella del rapporto tra Andy Wharol e il gallerista Lucio Amelio, che con la mostra Vesuvius (1985), mette la città al centro della Pop Art, rapportandosi direttamente con il cuore artistico di New York, e lasciando una traccia indelebile per quanto riguarda l’arte contemporanea in città, seguita da altri artisti negli anni a venire. Wharol aveva frequentato Napoli già a metà degli anni Settanta e fu coinvolto anche nella vicenda del terremoto dell’80, tramite l’iniziativa “Fate Presto” sempre di Amelio.
Il terremoto lascia il segno e ferisce la città, sebbene l’epicentro fosse in Irpinia, Napoli è puntellata e incerottata, ne esce malconcia ma viva, respira, e ancora una volta comincia a rialzarsi, dai Quartieri al Vomero.

Andy Warhol vede Napoli

Napoli Trema

Lello chiama a gran voce Gaetano da sotto la finestra. Gaetano scende di corsa e l’inquadratura va al portone del palazzo, che mostra l’ampio atrio interno puntellato per essere in sicurezza. È l’inizio del film Ricomincio da Tre, i due sono Lello Arena e Massimo Troisi, e quella impalcatura di legno che regge il cemento, è il segno del terremoto che a novembre del 1980 ha colpito parte del sud Italia, lasciando un segno drammatico in termini di vite soprattutto in alta Irpinia, ma segnando anche la fisionomia dei quartieri di Napoli che hanno dovuto fare i conti con notevoli danni. Si apre così il decennio degli Ottanta, con una scossa ancora viva nella memoria di chi c’era.

Troisi con questo film porta anche al cinema un’idea diversa di Napoli, o meglio dell’essere napoletano, aggredendo alcuni stereotipi, a partire da quello dell’emigrante: da Napoli ci si può anche spostare per conoscere e per viaggiare. Il successo al botteghino rivela quanto il pubblico e la gente si identifichi immediatamente in questa visione nuova. Battere agli incassi da esordiente un capitolo della saga di Star Wars non era cosa preventivabile. Arrivarono anche molti riconoscimenti ufficiali, ma il segno più importante resta quello culturale.

Un altro film del 1982, con Arena e Troisi dal titolo No Grazie il Caffè Mi Rende Nervoso, con una non casuale partecipazione di James Senese come attore (che ne cura anche le musiche), affrontava, con il registro del noir, la contrapposizione tra nuova e vecchia Napoli, in cui compariva un misterioso serial killer dal geniale nome di Funiculì Funicolà, che minaccia a morte con la secca frase “Napule nun adda cagna’”, chiunque partecipi al “Primo Festival Nuova Napoli”. È da dire che in quegli anni un buon successo cinematografico lo ebbero anche i film di Luciano De Crescenzo (Così parlò Bellavista e Il Mistero di Bellavista), che seppur più moderni non cambiavano di molto l’idea tradizionale di Napoli, come invece l’attore di San Giorgio a Cremano stava facendo, cominciando tra l’altro un sodalizio artistico con Pino Daniele che aveva curato le musiche di Ricomincio da Tre, mettendo tutti i tasselli al posto giusto. L’amicizia profonda tra i due porterà a un connubio artistico che farà incrociare spesso i film di Troisi con le musiche di Pino Daniele.

Neapolitan Power

“Ed era forse questa la forza del Neapolitan Power: sovvertire il sistema, cancellare gli schemi dimostrando che certe vocalità non erano riservate alla spensieratezza del folklore, ma potevano essere denuncia e nuova fonte di cultura, così come potevano essere nuova coscienza e riscatto di un popolo pronto a risorgere dal basso, dal concreto, dai valori comuni che sono quelli più ricchi.” Elena Crispino

Pino Daniele intanto pubblica Nero a Metà, il disco che lo porterà al successo definitivo molto oltre il golfo. Sono gli anni in cui raccoglie attorno a sé musicisti che saranno ancora di più il cuore di quel Neapolitan Power che resterà nel tempo. I nomi sono tantissimi, oltre quelli che lo hanno accompagnato fin qui si aggiungeranno quelli presenti nel disco Nero a Metà, e la superband di Vai Mò, l’album successivo, che porterà allo storico concerto di Piazza del Pebliscito del 1981, in cui la Rai sarà costretta a interrompere la messa in diretta per la troppa gente che affollava la piazza. Tony Esposito, Tullio De Piscopo, James Senese, Rino Zurzolo, Joe Amoruso, saranno a loro volta alfieri di questo periodo e di questo sound che mescola i generi: rock, jazz, funk, blues, folk, con album propri e continue collaborazioni, che tra l’altro li porterà, nella seconda metà degli anni Ottanta, insieme a Edoardo Bennato, a New York, per una serie di concerti, “Harlem meets Naples”, in cui saranno al fianco di James Brown e dei Temptations.

Ma anche tanti altri musicisti come Ernesto Vitolo, Gigi De Rienzo, Enzo Avitabile, Agostino Marangolo, saranno parte di questo straordinario movimento, a cui si icrive anche Teresa De Sio, (per cui Pino Daniele scrive la canzone Nanninella), che si fa conoscere con i suoi primi dischi in linea con quel nuovo sound, anche per la partecipazione di molti di questi musicisti. Assaje invece è un brano che Daniele darà alla voce di Lina Sastri e che compare alla fine del fortunato film Mi Manda Picone di Nanni Loy, con Giancarlo Giannini protagonista, insieme alla stessa Sastri. Da qui in avanti Pino Daniele si aprirà alle collaborazioni internazionali seguendo quella sua linea di contaminazione che lo ha sempre trainato verso nuovi mondi sonori, seppure con le dita ben salde sulla chitarra e il cuore ben piantato dentro Napoli. In questa girandola di talenti che arricchiscono quel periodo ci sono anche due insospettabili compagni di scuola di Pino Daniele, uno è il cantautore Enzo Gragnaniello, che dopo l’esperienza dei Banchi Nuovi, comincia il suo importante percorso cantautorale e l’altro è l’attore e scrittore Peppe Lanzetta, che con molti di questi artisti collabora direttamente.

“Pino Daniele, con il suo «mediterraneo blues», ha avuto il «coraggio di trattare la tradizione come luogo di traduzione e di transito, creando così uno squarcio nel mondo locale attraverso cui faceva illuminare il nostro presente con la luce dei blues per offrirci un altro spazio storico e culturale in cui vivere Napoli e il Mezzogiorno come soggetti storici e non come le solite vittime di altre narrazioni elaborate altrove»”. Francesco Festa

Negli anni Ottanta partono da Napoli, anche tre squilli di tromba in ambito pop nazionale, apparentemente isolati, tre canzoni che a modo loro faranno storia. Una è di Massimo Ranieri che, nel frattempo, oltre a cantare, si era affermato anche come attore, soprattutto di teatro, arrivando a lavorare con Giorgio Strehler al Piccolo di Milano. Si presenta a Sanremo dopo anni, con un brano che nella precedente edizione fu scartato, portato Gianni Nazzaro. Nella nuova veste, arrangiata da Rocco Tanica (Elio e le storie tese), Perdere l’amore stravince e resta come uno dei momenti canori più importanti di quella manifestazione, consacrando definitivamente il cantante e attore partenopeo. Ad aprire e chiudere il decennio invece sono Eduardo De Crescenzo, che lancia il suo brano Ancora (1981), che vive di una popolarità senza tempo, e un giovane cantautore, Nino Buonocore, che lo chiude con la sua elegante e appassionata canzone Scrivimi (1990).


Alcuni approfondimenti tematici
Carmine Aymone, Michelangelo Iossa “Napule è… I luoghi di Pino Daniele” Rogiosi, 2015
Claudio Poggi, Daniele Sanzone “Pino Daniele. Terra mia” Minimum Fax 2017
Brigante se more. Alla scoperta della musica del Sud” Coniglio Editore2010