Essere migranti oggi come ieri.
Dopo nove anni di silenzio, il nuovo romanzo di Younis Tawfik racconta il dramma di partire senza nessuna certezza, senza alcuna sicurezza, se non la speranza di un futuro migliore. Di sottrarsi alla miseria e alle bombe, di uscire indenni dall’inferno della guerra. La sponda oltre l’inferno (Oligo editore, 2021) dà voce alle storie di quattro uomini e una donna, provenienti da diversi paesi africani, che si sono conosciuti in un centro di detenzione posto nelle vicinanze di Tripoli e vivono la propria catabasi con il coraggio e la fiducia di chi ha perso tutto. Tawfik questa volta ha scelto la Libia come teatro di uno dei drammi più sanguinosi della nostra contemporaneità. Quel Paese che già prima della morte di Gheddafi «appariva ben solido, forte e in salute, come una tigre maestosa» e «in realtà era solo una fragile tigre di carta». La sponda oltre l’inferno non rinuncia a spiegare le cause politiche e storiche della guerra, del fenomeno migratorio, con note a piè di pagina e immagini che mescolano la forma romanzo con quella del reportage giornalistico e del saggio storico. Un romanzo corale, caratterizzato dalle voci dei singoli protagonisti che si amalgamano in una perfetta omogeneità polifonica, un documento quanto mai necessario che ci ricorda che l’inferno è in terra ed è vicino, vicinissimo, anzi sotto i nostri occhi. E che vivere, a volte, vuol dire prima di tutto sopravvivere.
Younis Tawfik è nato in Iraq nel 1957, ma ha lasciato il suo Paese nell’estate del 1979 per giungere in Italia, un mese dopo il colpo di Stato che ha portato Saddam Hussein al potere, e da quel momento ha scritto solo in lingua italiana. La sua esperienza di dispatrio emerge e segna la sua intera produzione in prosa e versi: La straniera (1999), premio Grinzane Cavour, La città di Iram (2002) e Il profugo (2006) sono i suoi romanzi di maggior successo.
Cos’è successo in questi ultimi nove anni di silenzio dopo La sposa ripudiata, il suo ultimo romanzo pubblicato per Bompiani, e La ragazza di piazza Tahrir?
Sì, sono passati nove anni, è vero, sembrano tanti, ma in realtà io, dopo aver scritto un romanzo, cerco sempre di dargli tempo di respirare. Quando ho una storia, la lascio riposare come un bambino che deve avere il tempo di crescere, poi prende una forma certa, definita, tutta sua. Il tempo che impiego a pubblicare un romanzo molto spesso è dovuto alla necessità di rielaborare i personaggi che ho conosciuto nella vita reale in caratteri narrativi. Racconto tutto quello che vedo, che vivo ogni giorno nelle mie opere.
La “sponda” è contenuta nel titolo del romanzo e “sponde” è il titolo della prima parte. La sponda indica l’idea di un confine condiviso, affollatissimo, di una condizione liminare, precaria, marginale. E il margine può essere una prospettiva privilegiata, può offrire quello sguardo plurimo e ibrido che è necessario per scrivere. Che significa per lei essere al margine oggi?
Io non guardo ai limiti o alle definizioni che la società mi affibbia, ma nel momento in cui scrivo in italiano, pensando in italiano, mi sento cittadino italiano. La lingua è terra. Una terra che comprende persone, tradizioni, voci. Un terreno fertile che ho scelto nel momento in cui sono arrivato qui in Italia, grazie a Dante all’inizio. Volevo imparare l’italiano per poter leggere Dante senza la traduzione, senza ostacoli tra me e lui in un dialogo che continua ancora oggi.
In un’intervista di ventidue anni fa dichiarò: «l’italiano è una lingua-distanza che uso come chiave per riappropriarmi della mia cultura e per ritornare con occhi più attenti alla mia terra d’origine. È un aiutare a capire». Una posizione ben più conciliante e diversa dalla “lingua nemica” che era il francese di Ágota Kristóf. A distanza di quarantatré anni dal suo arrivo in Italia, è cambiato questo rapporto con la lingua italiana?
Sì, adesso è cambiato. Adesso è una lingua di vicinanza, sono tantissimi anni che vivo in Italia e ormai scrivo in italiano meglio che in arabo, anche se devo dire che, dopo un periodo di scrittura solo in italiano, da qualche tempo qualcosa è cambiato. Ho ripreso a scrivere nella mia lingua madre e credo che questo ritorno sui miei passi sia una prova di appartenenza alla mia cultura d’origine.
Ha mai provato a tradurre le opere scritte in italiano nella sua lingua madre? Molti autori, come Tabucchi, riscontravano una grande difficoltà a tradurre nella lingua d’origine le proprie opere scritte in un’altra lingua. Che approccio ha con l’autotraduzione?
Direi che ho avuto per anni un approccio problematico, penso sia molto difficile e per certi versi impossibile autotradursi in senso letterale, parola per parola. Da poco ho riscritto La straniera ex novo con la mentalità e la creatività dello scrittore arabo che si rivolge a un lettore arabo, ma non è una traduzione fedele, è proprio una riscrittura. Non escludo che potrei farlo anche per Il profugo e per gli altri romanzi.
«Ho visto uomini morire agonizzando per ore, sotto il sole, sepolti a metà nella sabbia a pochi metri da dove dormivamo. Ho visto tanto sangue versato per niente. Ho visto anime salire al cielo per una banale offesa. Ho visto cadaveri mangiati dai cani e ho visto malati morire lentamente, consumandosi fino a che la pelle si adagiava sulle ossa. Non esistevano in quel posto le parole “bontà”, “cuore”, “amore”, e neppure “pietà”. A volte mi chiedo, dopo aver visto tutto questo, come ancora riesco a vivere. Sono stato nell’inferno da vivo, senza neppure dover scendere da questa carrozza che è la vita.»
In questo romanzo la prosa non si alterna alla poesia, come invece avveniva ne Il profugo. Lì le sue poesie sono tutte tratte dalla raccolta Nelle mani la luna, che raccoglie testi scritti o rivisti tra l’Iran e l’Italia tra il 1976 e il 1998. Com’è nata la scelta ibrida di coniugare la prosa di un romanzo con intermezzi lirici, con la poesia? E perché questa volta ha deciso di non farlo?
All’inizio ne La straniera la scelta della poesia era funzionale al confronto tra due generazioni di immigrati, ma in generale mi permetteva di analizzare il passato attraverso uno sguardo più empatico, più diretto nella forma del flash-back. In un certo senso, la poesia entrava al servizio della prosa. Sicuramente in questa scelta sono stato suggestionato dalla tradizione araba che predilige la poesia come forma espressiva e in particolare da Le mille e una notte e dai maqā´ma, forme di prosimetri tra cui spiccano come autori al-Hamadhānī e al-Ḥarīrī, ma anche dalla tradizione italiana, dai prosimetri di Dante: Vita Nova e Convivio. Ne La sponda oltre l’inferno ho scelto di non inserire parti in versi, perché la storia, già drammatica di base, ha un andamento narrativo che sfiora la cronaca e l’uso del verso avrebbe rischiato di far sfociare il romanzo in un eccesso di patetismo.
Un elemento che ho trovato interessante è l’assenza dell’albero piantato al centro del cortile, che era presente sia ne La straniera che ne Il profugo. La poesia L’ombra del gelso, presente ne L’Iraq di Saddam, in Nelle mani la luna apriva la raccolta col titolo L’ombra del cedro. L’albero in tutti i casi in cui si presenta, anche nella struggente Lettera ai veggenti della guerra de L’Iraq di Saddam, è un silente testimone e custode innocente di memoria. Come mai questa volta ha deciso di non inserire questo elemento tipico?
Forse perché non sono io il protagonista di questa storia, non sono io questa volta a vivere il dramma che devono affrontare i protagonisti del mio romanzo. Non c’è spazio per i miei ricordi qui.
È mai più tornato in Iraq dal 1979?
Sono tornato nel 1982 e poi nel 2012, quando ho capito che a mia madre non restava molto da vivere. Sono rimasto quindici giorni in un Iraq molto diverso da quello che ricordavo, non era più il Paese che avevo lasciato. Poi nel 2014 l’Isis è entrato a Mosul e tre anni dopo, nello scontro per liberare Mosul, mia madre è morta per colpa di un missile che è caduto davanti a casa nostra.
E da quel giorno ha mai più pensato di tornare a casa?
Non so se metterò più piede a Mosul sinceramente. La mia famiglia adesso è divisa: le truppe di Al-Qāʿida hanno ucciso uno dei miei fratelli. È più probabile che vada a trovare mia sorella in Kurdistan.
Tornando alla letteratura, adesso invece che progetti ha per il futuro?
Ho già in cantiere due romanzi e poi sto lavorando a L’Isis raccontato da mia madre.