Il 19 Marzo scorso è uscito (lo trovate su Amazon, non si dica che non faccio micro-pubblicità anche ai libri di cui non condivido la filosofia economica) il libro di Mario Adinolfi, una scusa come un’altra per parlare di temi eticamente sensibili come aborto, eutanasia e unioni civili. La tesi di Adinolfi è che a sinistra si sia creata una posizione comune che mina le basi su cui si regge la società postmoderna, che non si possa discutere insomma di certi temi in chiave più ”conservatrice” anche a sinistra. Tutto è sintetizzato nel titolo, Voglio la mamma: Adinolfi ci tiene a spiegare che la nostra società si fonda sulla figura mitologica della mamma, e che questa non vada toccata. Il terrore di fondo del libro, e-book e quant’altro, è che unioni civili e omogenitorialità porteranno alla scomparsa della mamma, almeno in senso classico, per come l’abbiamo conosciuta in secula seculorum. Visto che parliamo di temi delicati, e che ho la vaga impressione che sia una pessima operazione di mercato ridurli a risposte certe e semplici, penso che valga la pena affrontare questo libro di Adinolfi, trattarlo come uno speciale fenomeno sociale (pare sia diventato già terzo nella classifica di vendite via Amazon nel suo settore), e vedere punto per punto qual è la tesi diffusa, che non mi sembra molto distante da quella teocon pur partendo da premesse diverse.
Quello che mi preoccupa è il modo in cui sembra stia nascendo un certo orgoglio sotterraneo a sinistra intorno a queste idee, come se non fossero altrettanto imbalsamate sullo stile delle verità rivelate dalla chiesa. Io sono convinta, per esempio, che un tema come l’aborto sia molto difficile da affrontare con le verità rivelate, che trattarlo con la metafisica e toglierlo dall’ambito della realtà quotidiana sia nascondersi la terribile amarezza della vita, con tutte le sue giornate belle e brutte, sporche e gloriose: l’aborto è un tema troppo individuale per incatenarlo in una risposta certa, ideologica, da libro. Possiamo sentire mille storie e aneddoti su madri che hanno deciso di abortire, e madri che hanno deciso di non abortire nonostante tutto, ed essere d’accordo con entrambe. Possiamo leggere mille teorie sulle pratiche spartane per il ventunesimo secolo, leggere le motivazioni che portarono Pasolini ad essere contro l’aborto e quelle dei radicali italiani, ma al fine resta l’amarezza di non avere una risposta certa. L’unica risposta certa che possiamo tentare di darci è quella che gli aborti clandestini sono molto più pericolosi di quelli legalizzati, e che non mi sembra il caso di parlare di omicidio legalizzato nei casi in cui una donna prenda questa decisione, e che – ancora – mi sembra terrorizzante l’idea che molti hanno oggi in mente di una donna che va ad abortire dal medico come a comprare una borsetta in centro (e se anche esistessero di queste donne non sono di certo rappresentative, come non sono rappresentativi gli uomini di merda nel campione dell’umanità tutta). Mi sembra che spesso si affronti il problema di morte e vita, e anche della malattia, senza provare nessun genere di empatia per le storie quotidiane di chi ci vive dentro. Da queste premesse, eutanasia e aborto sono spesso equiparati all’omicidio legalizzato, dove la libertà di scelta è un optional per gli ideologi dei nostri bei tempi. Potrei raccontare anche io delle storie, ma mi sembra che ognuno di noi abbia storie e pensieri e ipotesi da raccontare, e che nessuna possa diventare rappresentativa della realtà di tutti, come non lo sono le storie che ci racconta Adinolfi all’interno del libro: cerchiamo di lasciar perdere il cosa farei io, e occupiamoci di come vogliamo dare possibilità agli altri di decidere cosa fare. Sono casi, e ogni caso è un caso particolare a sé. Come diceva Indro Montanelli, ”nessuno contesta il diritto di ognuno a disporre della propria vita, non vedo perché gli si debba contestare il diritto a scegliere la propria morte”.
Tornando al titolo, e alle questioni strettamente pubblicitarie a cui si lega quel titolo, ovviamente entriamo nell’eterna diatriba linguistica sul termine matrimonio, che deriva in parte dalla parola madre (”dovere della madre”, di contro al patrimonio che è ”dovere del padre”). Mi sembra un termine abbastanza arcaico per il tipo di società in cui viviamo oggi, come lo è del resto patrimonio (considerando che oggi anche una donna possa avere un dovere di carattere patrimoniale). Insomma ragionare in termini di immutabilità della lingua dal latino al ventunesimo secolo potrebbe apparire come una grande stronzata. Detto questo, io intendo matrimonio come l’unione rituale religiosa (ed economica) tra un uomo e una donna, e sono dell’idea di lasciare la parola in questo senso, perché non ha alcuna utilità cambiarne i connotati. Le leggi sono fatte per gli uomini, nascono quando si creano esigenze e tendenze diverse, e oggi se si discute di nuovi modi di unioni civili è perché ne sono nate le premesse dentro la società viva, quella che proviamo sempre ad ignorare come fosse l’irrealtà dell’al di là (su cui a volte basiamo le nostre credenze, e in alcune società persino il diritto).
Nella prima specie di matrimonio in tempi di diritto romano la donna veniva sottomessa all’autorità dell’uomo, dopodiché il diritto si rinnovò (capite?si rinnovò!) perché ovviamente venne considerata anche l’individualità della donna, e il matrimonio si basò sul consenso degli sposi (non sempre vero ovviamente, ma quantomeno così c’era scritto). Entrare adesso nella storia del matrimonio con la Chiesa cattolica sarebbe inutile e lungo, con tutte le diatribe del caso sul sesso post-matrimoniale o sul divieto di divorzio, e tutte le sue rivelazioni extra-sensoriali sul sacramento del matrimonio, per cui saltiamo direttamente ad oggi come oggi, situazione in cui si è palesata la richiesta da parte di alcune persone di aver diritto ad unirsi in un contratto civile con altre persone (parliamo di economia, immagino). Stiamo ovviamente affrontando anche il tema dell’omosessualità, che evidentemente dà fastidio ancor oggi a tanti, pur mantenendo il velo dell’ipocrisia sociale su di sé. Dà fastidio alla Chiesa, o comunque alla gran parte delle religioni storiche, perché scalfirebbe un grande presupposto della sessualità in chiave religiosa: il sesso è finalizzato alla procreazione, al mantenimento della specie (sono tagliate fuori da questo Gran Disegno Divino masturbazione, sesso protetto, omosessualità, e via dicendo). Anche in questo caso mi sembra che ignoriamo i casi per casi, le storie personali, e l’umanità. E mi sembra che la soluzione sia molto più semplice di come la si pone da ambedue le parti: permettere a chi vuole (per libera scelta) di unirsi civilmente senza rituali religiosi (se una certa confraternita non condivide l’atto sessuale senza finalità di specie, non vedo perché volerci restare, ed è un discorso per chiunque continui questa storia della finta-pratica religiosa). La domanda che aleggia in area conservatrice/provocatrice resterà: e allora cosa ci impedisce di sposarci a tre o con un cane? A volte quando sento queste domande penso che ci aggrappiamo agli artefatti, alle stronzate, alle provocazioni. Cosa ha impedito per anni a una badante polacca di sposare un povero vecchio rincitrullito per goderne l’eredità? cosa ha impedito a qualcuno di sposarsi in matrimoni fittizi per permessi di soggiorno, o nascondere preferenze sessuali diverse? cosa ha impedito culturalmente i finti matrimoni per secoli? Niente. Se anche scrivessimo sulle tavole della legge che le unioni civili tra due persone debbano avere come unico requisito l’amore come potremmo mai controllare che ci sia? Con un test della verità? Mi sembra un problema idiota, quello del cane e delle unioni a tre: si parla di unioni civili tra due persone, non tra animali e cose. Non tra un uomo e il suo sistema operativo.
Ma la chiave di volta del personale problema posto da Adinolfi sembra essere quello della scomparsa della mamma in un’epoca che evoca l’omogenitorialità. Io non so in che razza di famiglie siete cresciuti, se erano tutte quelle della Mulino Bianco o cosa, ma voglio parlare del non problema delle adozioni a questo mondo, e voglio farlo parlando degli unici requisiti sensati alle adozioni oggi come oggi: psicologici ed economici (requisiti facoltativi a volte anche in famiglie modello classico). Ci preoccupiamo così tanto dei bambini sembra, ma in fondo quello che ci preoccupa sul serio sono le nostre paure profonde, come se l’umanità fosse piena di paletti che distingue le persone, ogni epoca con i suoi pregiudizi uguali e diversi: le origini, le razze, il sesso, ad libitum. Davvero due uomini o due donne sono così incapaci di dare affetto a un bambino? Davvero immaginate che questo X bambino subirà gli sfottò di tutta la scuola?, e ve ne preoccupate addirittura, come fosse un problema da evitare, e non di rieducazione culturale. E’ come immaginare di dover tagliare le nascite di bambini neri in epoche razziste per evitare il dramma di essere nero a un bambino. Che schifo di immagine sociale daremo al futuro di noi. E’ veramente il mondo di Mario Adinolfi quello che sognate (a sinistra), quello che evoca paure e protezioni, che ha paura della vita, dei tutti i giorni, della quotidianità, delle sue ineliminabili contraddizioni? Davvero siete così bloccati da credere a un libro che pone problemi etici che resteranno sempre nel cuore dell’uomo ma che vanno affrontati con direzioni diverse e senza fuliggini ed ipocrisie? Davvero la retorica dei discorsi, il tirare in ballo De André e Pasolini a convenienza, riesce a persuadervi di tutto, ma proprio di tutto? [De André e Pasolini non sarebbero d’accordo ad essere citati così tanto a sproposito]
Possiamo argomentare qualsiasi cosa alla perfezione, tirare a turno le ideologie da una parte e dall’altra, ma perché farlo quando la soluzione in tutti in questi casi va ritrovata semplicemente nella libertà di scelta personale? Dirsi favorevole all’eutanasia non vuol dire sognare un mondo che si libera dei malati, vuol dire pensare che sia sacrosanto diritto di ognuno scegliere la dolce morte piuttosto che la sofferenza in caso di una malattia incurabile. Davvero si riesce a credere che non sia doloroso per una persona vedere qualcuno che ami che si commiata piuttosto che tenerlo in vita (cosa che assicura anche un gruzzoletto economico in certi casi)? Molto spesso quando si parla di eutanasia si evoca il nazismo, quei cari nazisti che si liberavano di dissidenti, di ebrei, di omosessuali non consenzienti, senza che nessuno dicesse una parola.
Ma di quante contraddizioni parliamo, quando parliamo di vita, morte e amore. Come se vivessero al di fuori di noi, come se fossero faccende ultraterrene. Nessuno chiamerà mai il padre o la madre genitore 1 o 2 (sono cazzate che raccontano nel politichese), nessuno toglierà a nessuno il diritto di chiamare la madre mamma: saremo sempre figli del caso, di situazioni diverse, di famiglie reali che non sono quelle perfette, o che si narrano nei saggi. Avremo sempre gli stessi problemi a vivere nella realtà viva, le stesse domande, i sogni di sempre di bambini. Non cambierà davvero niente nella storia dell’umanità, qualunque sia la direzione personale che sceglieremo di prendere. Nel passaggio dal libro al computer non è cambiato granché per le nostre domande fondamentali, intanto le leggi mutavano: i governi avevano paura, e iniziavano in qualche dove a pensare a come censurare i social networks (vedi in Turchia, dove la domanda di libertà restava la stessa, twitter o non twitter: era quello il cuore della faccenda, non internet). Potrei entrare più a fondo nel discorso e analizzare i vari temi e aspetti uno per uno (ce ne sono alcuni che non ho toccato, per esempio), ma mi sembra che sia totalmente inutile, perché l’unica cosa in cui credo è quella di assicurare libertà agli individui attraverso i diritti. Poi, tornando alle belle citazioni di Pasolini, ne tiriamo una fuori per l’occasione: ”Io so questo: che chi pretende la libertà, poi non sa cosa farsene”. Il vero dramma umano al fondo è questo: resteremo comunque dubbiosi su tutto, senza saper che farcene della libertà, ma è meglio avere il dubbio del nulla.